ISMETT
Carissimi, oggi conosceremo meglio un istituto vanto della sanità siciliana: L'istituto mediterraneo per i trapianti e terapie ad alta
specializzazione, ISMETT.
Lo faremo attraverso la testimonianza di Giancarlo Cappello, da 18 uno dei ferristi, nurse directors e prelevatori di organi dell'istituto. Prima, però, cercheremo di capire cos'è l'ISMETT.
L'istituto mediterraneo per i trapianti e terapie ad alta specializzazione nasce dall'idea di un gruppo di epatologi dell'ospedale palermitano “V.
Cervello” che propose all'University of Pittsburgh Medical Center (UPMC) l'idea
di un centro trapianti multiorgano da realizzare in Sicilia. Sempre nel 1995
entrò in vigore negli Stati Uniti una nuova legge che riduceva al 5% del totale
il numero di pazienti stranieri che potevano essere inseriti in lista d'attesa
per trapianto negli USA. Anche per questa ragione, i vertici di Pittsburgh
pensarono di guardare all'Europa e di partecipare attivamente alla
realizzazione di un centro trapianti a Palermo. Il 23 maggio 1996 l'idea venne
presentata al Ministero della Salute che accolse favorevolmente il progetto.
Attualmente il presidente del CDA è Camillo Ricordi,
professore di chirurgia dei trapianti all'Università di Miami e il direttore
Bruno Gridelli.
ISMETT ha avviato la sua attività clinica nel 1999. Il 31
luglio del 1999 venne eseguito con successo da Ignazio Marino (allievo del
pioniere dei trapianti Thomas E. Starzl) il primo trapianto di fegato da
donatore cadavere in Sicilia. Nello stesso anno è stato avviato sempre da
Ignazio Marino il programma di trapianto di rene, da donatore cadavere e
vivente. Nel 2002 venne eseguito dal team guidato da Ignazio Marino il primo
trapianto di fegato da donatore vivente. Nel 2004, l'ISMETT ha ottenuto
l'autorizzazione per eseguire anche i trapianti di cuore e di polmone
diventando così un centro trapianti multiorgano.
Dal giugno del 2007 è attivo presso ISMETT un Centro di
Simulazione. Il Centro ha l'obiettivo di prevenire e ridurre gli errori medici.
L'uso della simulazione per formare il personale è già parecchio diffuso in
alcuni settori, come quello dell'aviazione dove i piloti vengono addestrati già
da anni con un modello di questo tipo. Adesso, il suo utilizzo sta cominciando
a diffondersi anche in campo medico. Il centro di simulazione offre, infatti,
la possibilità di mettere in atto procedure anche ad alto rischio in un
ambiente senza rischi per il personale e senza coinvolgere i pazienti.
La struttura è dotata di cinque simulatori manichini, a
grandezza naturale tecnologicamente sofisticati, in grado di simulare segni e
lamentare sintomi come un paziente reale. Il centro è stato realizzato grazie
ad una donazione della Fondazione Fiandaca, l'attività di formazione del
Centro, aperto a tutti gli operatori sanitari, è iniziata a gennaio del 2008.
Ora passiamo alla testimonianza di Giancarlo:
" Era il novembre del 1999 e da qualche giorno ero stato
assunto come infermiere di sala operatoria presso l’Istituto Mediterraneo
Trapianti di Palermo. Tutto era interessante e tutto mi affascinava. I colleghi
più esperti, quelli che erano stati a Pittsburgh prima di me, erano determinati
nel voler trasferire la loro esperienza e le loro conoscenze a noi nuovi
assunti. Eravamo molto concentrati sul training che già si annunciava pesante
ed impegnativo, ancor più che i nostri colleghi d’oltreoceano non parlavano una
parola d’italiano. Abituato all’ambiente ospedaliero, frequentato durante il
tirocinio infermieristico, mi sentivo su un altro pianeta. Uno tra i miei
colleghi più esperti era stato designato come mio “preceptor”, ma l’intensa
attività spesso ci impediva di trascorrere insieme il tempo sufficiente a
rispondere alle mille domande che avrei voluto fare.
Ed ecco che spesso mi trovavo affiancato dai colleghi
americani che nonostante l’ostacolo della lingua non demordevano dal tentativo
di trasmettermi un nuovo metodo assistenziale, basato sulla centralità del
paziente, sulla comunicazione e sull’applicazione di “Policy & Procedures”
a cui tenevano tanto. Ho scoperto che il piano di nursing studiato a scuola non
era pura teoria ma poteva essere applicato, bastava volerlo, bastava lavorare
in team con dei colleghi collaboranti e un ambiente idoneo, dove l’infermiere
era finalmente considerato non più un subalterno del medico ma un
professionista con la sua dignità e la sua autonomia, dotato di conoscenze ed
abilità pratiche ma sopratutto di “Critical Thinking” e di quelle che amavano
definire “Non Thecnical Schills”.
Dovetti familiarizzare con “Emtek”, la cartella clinica
informatizzata (rigorosamente in inglese), nonché con svariate “picklists” e
“checklists” che contornavano il lavoro quotidiano dandoci un metodo sicuro e
preciso, dove l’errore non scaturiva dalla casualità ma dalla volontà di
qualcuno a non seguire le regole, troppe regole alle quali dovevamo abituarci
ma delle quali oggi non sapremmo fare a meno. In questo contesto di crescita,
di entusiasmo e di amore verso una professione che finalmente aveva la
possibilità di esprimersi, arriva la drammatica notizia che prima o poi mi
attendevo: dovevamo recarci, per effettuare un prelievo d’organi, presso
l’Ospedale Civico di Palermo dove si era appena conclusa l’osservazione di un
donatore multiorgano.
Per me, che l’essere infermiere aveva sempre significato
combattere per la vita partendo dalla vita, si apriva una nuova dimensione,
quella della sconfitta e dell’accettazione, da cui poter trarre beneficio per
altri innumerevoli pazienti bisognosi di aiuto. Insieme cercavo di comprendere
il gesto di amore e la sofferenza di quei parenti che in un momento così
difficile erano riusciti a dire si. Ho impiegato qualche ora prima di elaborare
la mia teoria, quella del dovere e dell’impegno a cui ciascun infermiere è
chiamato deontologicamente e professionalmente.
Come potevo rendermi utile? Cosa era opportuno fare? Mi
sentivo inadeguato a gestire una situazione così grande ma dovevo impegnarmi
responsabilmente in quel difficile compito. Dovevo agire professionalmente e
diligentemente e dovevo farlo nel migliore dei modi e nel più breve tempo
possibile.
I primi donatori erano una importantissima opportunità di
training per tutti noi neoassunti, bisognava osservare, collaborare, prendere
appunti, studiare, individuare le carenze per porvi rimedio ed essere sempre
più pronti la prossima volta. In quella occasione il mio compito era quello di
preparare il setting della sala operatoria, i tavoli chirurgici, lo
strumentario, il materiale occorrente all’intervento. Ben presto mi resi conto
che il prelievo d’organo, per molti aspetti considerato un intervento di
secondaria importanza rispetto a quelli effettuati sui pazienti “in vita”, era
invece un intervento delicato e importantissimo perché fondamentale per la
riuscita dei trapianti, specie riguardo ad alcuni aspetti fondamentali come il
mantenimento della sterilità, la gestione degli organi, la riduzione dei tempi
di ischemia.
La figura infermieristica, come nella maggior parte dei
setting assistenziali, anche in quello della donazione giocava un ruolo
fondamentale. Allora occorreva imparare bene, elaborare conoscenze ed
esperienze, mettere nero su bianco e trasferire queste conoscenze a tutti i
colleghi che con lo stesso entusiasmo e la stessa dedizione si sarebbero
occupati di prelievo d’organi. Furono scritte checklist e protocolli di
gestione, utilizzati sia per lezioni interne ai colleghi neoassunti, sia
all’esterno dell’ospedale in diverse opportunità formative promosse dal nostro
Centro Regionale Trapianti (CRT).
Sono passati diversi anni e da allora siamo stati in tanti
ospedali in Italia, in Grecia, a Malta ma anche in Israele, ex Jugoslavia ed
altre Nazioni fuori dal continente europeo. Ogni posto è diverso dall’altro,
con diverse disponibilità di mezzi, risorse, conoscenze ed esperienze ma tutti
sono accomunati dallo stesso denominatore, ossia una disponibilità
incondizionata verso un obiettivo comune: far sì che il prelievo vada a buon
fine e che gli organi giungano in buone condizioni al sito del trapianto.
Non voglio tralasciare un aspetto importantissimo, difficile
da trasmettere e quasi impossibile da insegnare, perché direttamente
influenzato dalla sensibilità e dal vissuto di ciascuno di noi, ossia il
rispetto per il donatore e per il gesto bellissimo della donazione. Anche se il
consenso viene dato dai familiari, tale gesto rimane espressione del modo
d’essere di colui che donando gli organi dà la possibilità ad altri pazienti,
indifferentemente adulti o bambini, di migliorare il proprio stato di salute.
Già dal mio primo donatore questo rispetto mi imponeva un’attenzione
particolare in ogni piccolo gesto che compivo ed in particolare in quello
scambio di sguardi all’uscita dalla sala operatoria tra noi ed i familiari del
donatore. Tante volte avrei voluto fermarmi, parlare con loro, ringraziarli del
bellissimo gesto compiuto, rassicurarli sulla destinazione degli organi, ma
sapevo benissimo che non ci era consentito. Ed ecco che allora parlavano gli
sguardi, la compostezza, il rispetto, un sorriso di gratitudine in un mare di
dolore".
Ringrazio Giancarlo Cappello per la preziosa testimonianza.
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