Pomodoro a Belmonte Mezzagno



Da Ode al pomodoro di Pablo Neruda:
"E sopra il tavolo, nel mezzo dell’estate, il pomodoro, astro della terra, stella ricorrente e feconda, ci mostra le sue circonvoluzioni, i suoi canali, l’insigne pienezza e l’abbondanza senza ossa, senza corazza, senza squame né spine,
ci offre il dono del suo colore focoso e la totalità della sua freschezza".

Ebbene sì, Pablo Neruda cantore immortale dell'amore, dedico un ode al pomodoro, pomme d'amour definito anticamente dai francesi. Frutto importantissimo nella nostra alimentazione odierna, fino al 1540 era sconosciuto agli europei. Infatti è una bacca nativa della zona dell'America centrale, del Sudamerica e della parte meridionale dell'America Settentrionale. I primi ad intuirne l'uso alimentare del "Solanum lycopersicum" (questo il nome scientifico) furono gli aztechi; infatti, la salsa di pomodoro era parte integrante della loro cucina.
La data del suo arrivo in Europa, come detto, è il 1540, quando il condottiero spagnolo Hernán Cortés rientrò in patria con alcune piantine, la cui coltivazione diffusa si ebbe tuttavia solo nella seconda metà del XVII secolo.
In Italia la storia documentata del pomodoro inizia a Pisa il 31 ottobre 1548 quando Cosimo de’Medici ricevette dalla sua tenuta fiorentina di Torre del Gallo un cesto dei pomodori nati da semi regalati alla moglie, Eleonora di Toledo, dal padre, Viceré del Regno di Napoli. Me appare verosimile che la prima regione italiana a conoscere la nuova pianta fu la Sicilia per la diretta influenza della Spagna sull’isola; e sembra infatti che da lì provengano le ricette italiane a base di pomodoro più antiche.
Inizialmente si pensò che fosse una pianta velenosa in quanto somigliava all'erba morella. Difatti, di fronte al dubbio, venne adottata assieme alla patata e a quella americana, come pianta decorativa. I più ricchi situavano questi vegetali stranieri in bei vasi che ornavano le finestre e i cortili. Così la coltivazione del pomodoro, come pianta ornamentale, dalla Spagna, forse attraverso il Marocco o più probabilmente attraverso il Regno di Napoli, allora di monarchia spagnola, si diffuse in tutto il bacino del Mediterraneo, trovando il clima adatto per il suo sviluppo, soprattutto in Italia.
Scarsissima è la documentazione relativa all'uso alimentare: le prime sporadiche segnalazioni di impiego del suo frutto come alimento commestibile simile alla melanzana, fresco o spremuto e bollito per farne un sugo, si registrano in varie regioni dell'Europa meridionale del XVII secolo. Soltanto alla fine del Settecento la coltivazione a scopo alimentare del pomodoro conobbe un forte impulso in Europa. In Francia veniva consumato soltanto alla corte dei re. Nel 1762 ne furono definite le tecniche di conservazione in seguito agli studi di Lazzaro Spallanzani che, per primo, notò come gli estratti fatti bollire e posti in contenitori chiusi non si alterassero.
Questa è la "biografia" del pomodoro, adesso passiamo all'uso che in Sicilia, come detto, madre della coltivazione europea del pomodoro, si è fatto nel tempo di tale frutto, più nel dettaglio a Belmonte Mezzagno..

Anticamente a Belmonte, oltre a consumarlo con un pizzico di sale ("a stricasali") o ad insalata, si impose presto l'uso di stendere al sole la passata ottenuta filtrando il pomodoro cotto in dei setacci in ferro con il solo uso delle mani, facendo si che diventasse estratto di pomodoro ("astrattu"). Le nostre nonne stendevano la passata in lunghe tavole di legno chiamati "scanaturi", e continuamente, sotto il sole cocente dell'estate siciliana, la muovevano affinché l'asciugatura avvenisse in modo compatto
Col passare degli anni, si cominciò ad imbottigliare la passata
per poter preparare la pasta con il sugo durante tutto l'inverno. Successivamente, i setacci in ferro vennero sostituiti con il passa pomodoro a manovella, per giungere dopo qualche decennio, al passa pomodoro elettrico in uso oggi.

Naturalmente, ogni famiglia ha la sua ricetta personale: chi lo cucina con l'acqua ("squaratu), lo passa e poi lo ricucina prima d'imbottigliarlo; chi lo cucina a pezzettoni ("scripintatu"), lo passa e direttamente lo imbottiglia mettendo le bottiglie successivamente al sole affinché la loro temperatura scenda gradualmente. Comunque lo si faccia, in pieno inverno l'odore della salsa che emana la bottiglia appena aperta è indescrivibile.
Un'ultima cosa vorrei dire, è curioso il nome con cui, nella parlata belmontese, intendiamo la realizzazione della passata: "fari i buttigli", come se le dovessimo costruire, stranezze del nostro dialetto.

Commenti

Post popolari in questo blog

Antonio Ventimiglia conte di Collesano

Laura Sciascia

Giuseppe Emanuele Ventimiglia