Antonio Ventimiglia conte di Collesano

 


Oggi voglio parlarvi di un antenato del principe Giuseppe Emanuele Ventimiglia vissuto a cavallo tra il 14° e il 15° secolo, trattasi di Antonio Ventimiglia conte di Collesano e barone di Gratteri.

Antonio Ventimiglia nacque, sesto di otto figli, da Francesco II ed Elisabetta di Lauria nella seconda metà del Trecento. Fattosi uomo, si fidanzò con Alvira Moncada figlia di Matteo e Allegranza Abbate. Il matrimonio fu celebrato per procura nel 1380 a Cagliari, dove il fratello Guglielmo Raimondo barone di Augusta l'aveva condotta con sua madre. Dopo di ciò, Artale Alagona conquistò Augusta costringendo i Moncada a fuggire in Catalogna, questo impedì ad Alvira di raggiungere la Sicilia; per colpa di questo Antonio finì per sposare Margherita Peralta figlia di Guglielmo conte di Caltabellotta e vicario del Regno di Sicilia. Dal loro matrimonio nacquero due figli: Francesco e Giovanni. A fine 1396, morta la moglie Margherita Peralta, il Conte risposerà Alvira Moncada che non si era più risposata; dal loro matrimonio nasceranno Costanza ed Enrico.


Alla morte del padre Francesco II, avvenuta nel 1387, ereditò da lui l'alto ufficio di Gran Camerario del Regno di Sicilia, massima autorità economico-patrimoniale dello Stato ed inoltre la maggior parte degli altri titoli e delle altre terre appartenute a Francesco II, divenne, dunque: conte di Collesano e barone di Gratteri, signore della cittadina e porto di Termini, e dei castelli e borghi di Roccella, delle Petralie, di Isnello, Bilici e Caronia. Gli altri titoli, fra cui quello più importante era certamente quello di conte di Geraci, furono ereditati dal fratello primogenito Enrico II.

Il rapporto fra Enrico II ed Antonio spesso fu tutt'altro che pacifico, Antonio infatti mosse guerra contro il suo fratello, infrangendo la clausola testamentaria che stabiliva che se qualcuno dei figli avesse mosso guerra all'altro avrebbe perso l'eredità; per evitare questo, Antonio chiese ed ottenne dal re Martino I l'annullamento di tale clausola. Tra i due fratelli, il più bellicoso era certamente Antonio, che alla morte del padre aveva assunto la leadership della famiglia: era stato lui infatti a subentrare a Francesco nella carica di vicario della regina, che ne faceva uno dei quattro personaggi più autorevoli del Regno, insieme con Andrea Chiaromonte, Manfredi Alagona e Guglielmo Peralta, padre della moglie Margherita.

Neppure i rapporti fra i quattro vicari erano idilliaci e papa Bonifacio IX, preoccupato, nel luglio 1391 inviò in Sicilia un nunzio apostolico per riappacificarli, dato che i contrasti tra Chiaromonte e Alagona da una parte e Ventimiglia e Peralta dall’altra erano degenerati in rancori e odi e indebolivano il fronte antiaragonese, che tanto stava a cuore al pontefice, il quale era contrario alle pretese aragonesi sull'isola.

All’arrivo in Sicilia di re Martino I nel marzo 1392, il fronte antiaragonese sembrava però essersi già sfaldato, perché il duca di Montblanc, padre di Martino, si era preoccupato in precedenza di soddisfare le numerose richieste di grazie e ricompense dei baroni e delle città ed era stato con tutti largo di promesse e privilegi.

Antonio Ventimiglia, non più vicario, otteneva dai sovrani la conferma della contea di Collesano e di vari privilegi e il mese successivo anche del testamento paterno, con l’esclusione della famosa clausola sulla decadenza dall’eredità in caso di lotte armate tra i due fratelli.

Nel luglio 1393 scoppiò una rivolta contro re Martino a cui Antonio Ventimiglia prese parte trascinandosi appresso i fratelli e alcuni congiunti. Nel 1394, il conte di Collesano assediò Nicosia e Castrogiovanni, dove sconfisse le truppe aragonesi comandate dai cavalieri catalani Raimondo de Bages e Guerau Alamany de Cervellò, facendo così molti prigionieri, inclusi i comandanti. A battaglia terminata, subì un'imboscata dalle truppe catalane comandate da Ugo di Santapau, e fu fatto da loro prigioniero.


Nel corso del 1395-96 la resistenza antiaragonese lentamente si affievolì e don Cicco, fratello di Antonio, trattò la liberazione del fratello. Nell’ottobre 1396 fu così stipulato un vero e proprio trattato di pace fra i sovrani Maria, il marito Martino il Giovane e il suocero Martino il Vecchio da una parte, e i Ventimiglia dall’altra.

A garanzia del rispetto degli accordi da ambo le parti, don Cicco otteneva il placet dei sovrani per il matrimonio già concordato del conte Antonio con Alvira Moncada, sorella del conte di Augusta.

Ancora pochi mesi e i fratelli Ventimiglia ripresero le armi contro i Martini per una nuova ribellione dell’aristocrazia siciliana, da essi capeggiata insieme col gran giustiziere Guglielmo Raimondo Moncada, fratello di Alvira, deluso per la posizione di preminenza assunta nel Regno da personaggi giunti al seguito dei sovrani nel 1392, come i catalani Bernardo Cabrera e Jaime de Prades.

Una sentenza del novembre 1397, emessa a Catania, dichiarò i Ventimiglia ribelli e li condannò alla confisca dei beni, da cui li salvò l’intercessione di Jaime de Prades. Contemporaneamente si combinava il matrimonio fra Francesco Ventimiglia, figlio del conte Antonio, e Isabella de Prades, figlia di don Pedro, fratello di don Jaime.


Francesco era uno scapestrato: attorno al 1404, nel castello di Roccella dove la famiglia del conte di Collesano risiedeva, aveva sedotto Floria, damigella di Alvira e nipote (o figlia) del castellano Matteo di Sciacca, e ne aveva fatto la sua amante, provocando l’ira del conte Antonio che riteneva l’accaduto un affronto nei confronti della moglie con ricadute negative sui loro rapporti. Esasperato, anche perché convinto che il figlio volesse assassinarlo e avesse complottato contro di lui durante la sua permanenza in Catalogna in occasione del matrimonio con Isabella de Prades, il conte Antonio finì col diseredarlo a favore del figlio di secondo letto Enrico, e col rinchiuderlo addirittura in carcere.

Nuovamente ribelle, nel 1408 Antonio fu arrestato - probabilmente su istanza del fratellastro Guido di Ventimiglia e del figlio Francesco imparentato con la Casa reale di Barcellona tramite la mogie Isabella de Prades - con l'accusa di crimini contro la Corona, e mandato in esilio a Malta.

Dopo l’arresto del conte Antonio, al quale Francesco non sarebbe stato estraneo con una sua delazione, la contea di Collesano fu per qualche tempo in mano a Enrico Rosso, per finire poi ad Alvira. Francesco e il fratello Giovanni non si rassegnarono e attorno al 1412 tentarono di occupare con la forza Petralia Soprana senza riuscirvi, mentre fu più facile occupare Petralia Sottana e successivamente anche Collesano, dove però il conte di Geraci, intervenuto su richiesta di Alvira, con l’aiuto degli abitanti lo catturò e lo consegnò alla contessa, che lo rinchiuse nella fossa del castello di Roccella. Grazie all’aiuto della figlia del castellano Matteo di Sciacca e di alcuni servitori, Francesco riuscì a liberarsi e a catturare, a sua volta, la contessa e la figlia Costanza, dopo avere scaraventato giù dalla torre il castellano che gli si opponeva. Un nuovo intervento armato del conte di Geraci da Cefalù non valse a riprendere Roccella e a liberare le due donne, ma molto probabilmente gli consentì di impadronirsi del resto della contea di Collesano, che nel settembre 1412 si trovava infatti in suo potere.

Francesco non si piegò neppure alle sollecitazioni del padre, che da Malta gli inviò un messaggero con l’ordine di liberare Alvira e la figlia senza alcuna condizione e di cooperare con lei alla sua scarcerazione in cambio di Gratteri e Roccella. Della liberazione delle due donne si interessò allora anche la città di Palermo, i cui ‘ambasciatori’ − il giurista messinese Tommaso Crispo (figlio di Rainaldo e fratello di Pino), già pretore e secreto di Palermo, e Francesco Ventimiglia − prepararono un accordo (concordia) fra la contessa Alvira, Francesco e il conte di Geraci, che fu sottoscritto da Giovanni a Castelbuono il 26 settembre 1412, alla presenza degli stessi ambasciatori e di altri testimoni.

Il conte di Geraci assumeva l’impegno di assegnare alla contessa Alvira, non appena liberata da Francesco insieme con la figlia tutte le terre del Conte; e intanto a garanzia consegnava ai due ambasciatori il proprio figlio primogenito Antonello. Francesco pretese che egli si impegnasse anche a non interloquire, ossia a non porre veti, nel caso in cui Alvira volesse cedergli parte della contea: evidentemente l’intervento armato di Giovanni a Collesano e a Roccella aveva creato forte acredine tra i due cugini. A dimostrazione poi delle sue buone intenzioni, il conte di Geraci consegnava ai due ambasciatori Caronia e assegnava la terra e il castello di Collesano a don Antonio Ventimiglia e a Ruggero Spatafora, i quali li avrebbero tenuti in fede fino alla liberazione delle due donne.

In cambio della libertà sua e del marito, Alvira era disposta a cedere tutto al figliastro, contentandosi soltanto di un castello dove trascorrere filando i suoi giorni. Ma Francesco non si fidava e non aveva torto. Pretese perciò che il conte di Geraci si impegnasse affinché − qualora la contessa Alvira, una volta liberata, non volesse cedergli nulla − gli fossero almeno concesse le rendite di Caronia, oppure, in caso di ulteriore diniego, onze 120 in moneta. Giovanni si impegnò anche a non consentire in nessun modo che Costanza si sposasse senza il consenso del padre, dello stesso Francesco e degli altri parenti riuniti in consiglio di famiglia, con una dote costituita da gioielli, utensili e denari e con esclusione di immobili; a considerare Francesco come un fratello, trattarlo come un vero amico e stare insieme in pace con la contessa Alvira e con Giovanni Ventimiglia

Tutti, il conte Giovanni, Francesco e la contessa Alvira, si impegnavano a perdonare e a lasciare in pace i servitori, indipendentemente dal ruolo ricoperto nella vicenda e dalla parte con cui si erano schierati; a non richiedere la restituzione di beni mobili trafugati, diversamente dai beni stabili che sarebbero stati invece restituiti ai proprietari.

Né il conte Giovanni né Francesco erano però obbligati al rispetto degli accordi prima della liberazione del conte Antonio oppure prima della decisione del sovrano. Il conte Giovanni, Francesco e la contessa si impegnavano infine al rispetto degli accordi e accettavano che il contravventore pagasse una multa di mille onze, per metà al fisco e per metà agli altri due. Prima che Alvira e la figlia fossero poste in libertà, sembra che la contessa promettesse per iscritto a Francesco di cedergli oltre Caronia anche Collesano.

A liberazione ottenuta, Alvira diede tuttavia mandato al conte di Geraci di consegnare Caronia a Francesco. Ma Giovanni era apertamente schierato sull’altro fronte, quello della vicaria, e perciò non accolse le sollecitazioni inoltrategli da Francesco, il quale il 3 febbraio successivo gli fece pervenire una protesta formale a Castelbuono, dove il conte risiedeva più frequentemente che noni suoi antenati in passato. Giovanni si riservò di rispondere e il giorno dopo precisò che era disposto a pagare al momento opportuno la multa prevista dall’accordo del settembre precedente, nella convinzione evidentemente che non l’avrebbe mai pagata perché il suo comportamento era in linea con la volontà del sovrano.


Probabilmente egli attendeva che Francesco, il quale teneva in suo potere Gratteri, desse il suo consenso allo scambio con Caronia, perché il nuovo sovrano Ferdinando non era alieno dal concedere la scarcerazione del conte Antonio, sempre prigioniero a Malta, in cambio della cessione di Gratteri e di Roccella alla Corona. L’assenso era stato ribadito da re Ferdinando in gennaio, in occasione di una ambasceria siciliana a Saragozza, nella quale fra l’altro gli era stata richiesta la liberazione del conte di Collesano, la cui prigionia non era gradita ai baroni siciliani, che già nel parlamento di Taormina del 1411 ne avevano chiesto la scarcerazione. Il sovrano stabiliva pertanto che il conte Antonio fosse liberato e si recasse da lui a corte e che, in attesa di una sua decisione definitiva, i castelli di Gratteri e di Roccella rimanessero in possesso della Corona.

Ma Gratteri e Roccella erano in mano a Francesco, il quale rispose negativamente al castelbuonese Angelo de Castiglo, inviato a lui dal conte di Geraci e dalla contessa Alvira per chiedergli di accettare la richiesta del sovrano consentendo così la liberazione del padre. E in luglio prima chiese al sovrano di concedergli il governo dei beni paterni, ritenendosi in possesso della necessaria maturitas gubernandi, e subito dopo si recò a corte per perorare la sua causa.


E così il conte Antonio continuò a rimanere nel carcere di Malta, dove il 9 dicembre 1413 dettò il suo testamento al notaio Antonio Agrippardo, con cui annullava nuovamente la precedente donazione propter nuptias a favore del figlio Francesco, per i gravissimi torti da lui ricevuti, e lo diseredava unitamente al secondogenito Giovanni, anche questi accusato di ingratitudine e di gravi disobbedienze. Legava in usufrutto alla moglie Alvira vita natural durante la contea di Collesano e le baronie delle Petralie, Bilici e Caronia e tutti i suoi beni stabili feudali e burgensatici, mentre creava sua erede universale la figlia Costanza ed erede particolare per Gratteri e Caronia il nipote Giovanni Ventimiglia, conte di Geraci, al quale cedeva anche le collette di San Mauro e Pollina e il feudo Fisauli, che faceva parte della contea di Geraci, a patto però che fosse obbediente come figlio alla contessa Alvira e non mettesse in discussione le volontà testamentarie del conte Antonio. Era il compenso al nipote perché non contestasse la successione a favore di Costanza. In caso poi di decesso di Costanza senza figli legittimi, l’eredità sarebbe spettata allo stesso Giovanni o ai suoi eredi. Molto generosamente, il conte di Geraci dopo la morte di Antonio restituì Gratteri a Francesco e Caronia a Costanza, assumendo così «la figura di capo del lignaggio, di arbitro generoso, in accordo con la corte di Ferdinando, poi di Alfonso il Magnanimo».

Nel 1414, Antonio tornò libero per la grazia concessagli dal re Ferdinando I d'Aragona e poté riacquisire i diritti sui beni confiscati, senza però fare in tempo a rientrare da Malta dove morì l'11 febbraio 1415.

Fonte: "I Ventimiglia di Geraci"; Orazio Cancilla (2016).


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