Rivolte d'amore

Parte Prima 
Capitolo 1

Nei primi giorni del 1848, l’odio accumulato dai siciliani nei confronti della dinastia borbonica raggiunse l’apice: tutto ebbe inizio l’8 dicembre 1816, quando Ferdinando IV tornato a Napoli, dopo il suo esilio forzato a Palermo a causa dell’occupazione di Napoli da parte dei francesi di Murat, revocò la costituzione che aveva concesso nel 1812, allora spinto dal capitano inglese Lord William Bentick e da alcuni capi del partito riformista siciliano primo fra tutti il Giuseppe Emanuele IV Ventimiglia principe di Belmonte e lo zio Carlo Cottone principe di Castelnuovo. Ciò avvenne perché sentendosi ormai al sicuro istituì il Regno delle Due Sicilie assumendo il nome di Ferdinando I e spazzando via ogni sogno di un ritorno ad un Regno di Sicilia indipendente, così come auspicato dalla maggior parte del popolo siciliano. Tutto ciò portò, nel 1820, ad una serie di insurrezioni, rivolte sedate col sangue.
Il 12 gennaio 1848 il tumulto divenne rivoluzione, al grido di Siciliani alle armi, Rosolino Pilo e Giuseppe La Masa si posero alla testa degli insorti. Stavolta però la rivolta portò i risultati sperati, infatti, i rivoltosi riuscirono a scacciare i Borbone costringendoli a riparare nella cittadella fortificata di Messina.
Il 23 gennaio venne dichiarata decaduta la monarchia borbonica, rispolverando la Costituzione del 1812, il 25 marzo fu proclamato il Regno di Sicilia con a capo Ruggero Settimo.
Purtroppo, la libertà durò poco, all’inizio del ’49 Ferdinando II – nipote di Nasone – preparò la sanguinosa riconquista inviando 16.000 uomini affidando il loro comando al generale Filangeri. Già il 5 maggio l’esercito fu a Bagheria, pronto all’attacco definitivo su Palermo. Prima però decise di chiudere un conto in sospeso con Belmonte Mezzagno, paese capofila dell’odio borbonico…

Sté, alzati e prendi Matteo! Dobbiamo andare!” esclamò la madre. “Titta, tu prendi Rosa!”
Già da qualche giorno si temeva l’arrivo dell’esercito, adesso che si trovava alle porte del paese non si poteva più aspettare bisognava fuggire nelle montagne. I paesani, intuendo che l’esercito veniva con cattivi intenti, già avevano pianificato la fuga. Tutti furono d’accordo, tranne un gruppo di facinorosi guidati da Marcello Pizzuto, convinti di poter contrastare gli uomini di Filangeri. Avevano cercato di convincerli, ma non vollero sentire ragione. Quella mattina, mentre tutta la popolazione belmontese fuggiva: chi verso il Bosco, chi verso Montagnoli, chi verso Santa Caterina, chi verso Billimunti; loro rimasero nei dintorni del paese, convinti della loro superiorità bellica.
 Stefano anche se non aveva compreso bene cosa stesse succedendo, prese Matteo in braccio e segui la madre e le due sorelle maggiori. Giunsero in strada che ancora era buio presero una fiaccola e seguirono gli altri. Papà Nino era alla testa del gruppo, lui aveva pensato alla fuga come unica via di scampo, e adesso si sentiva responsabile dell’incolumità dei suoi paesani.
Seguendo Nino, il gruppo si avvio verso Valle Funda. A Meta strada, svoltò e cominciò a salire verso il Bosco. Era un popolo assai variopinto: Gino con le pecore davanti andava fischiando ai cani per tenerle unite; zi Luigi con l’asino che non voleva sentirne di salire, continuava ad imprecare; a zia Betta che era già giunta al terzo rosario imponeva la preghiera alle donne che la seguivano fedeli. A Stefano e Titta, che non sapevano il dramma che vi era dietro quella fuga, sembrava soltanto una mattinata più divertente delle altre.
Giunti in cima, mentre i fuggitivi cominciavano a scendere percorrendo la trazzera per Piano Casale, meta del loro viaggio; alcuni giovani uomini rimasero in vetta per controllare dall’alto i movimenti dell’esercito, sicuri che di lì a poco sarebbe arrivato in paese.
Arrivati alla meta che albeggiava, i paesani poterono far riposare le membra, stanche delle tre ore di marcia.

In paese rimasero soltanto il parroco don Pietro e padre Enrico il cappellano della chiesa Miseremini. La loro attesa non fu lunga, nel tardo pomeriggio cominciarono a sentire il passo svelto dei cavalli delle milizie borboniche. Mostrando il coraggio che non aveva, Don Pietro, dopo aver convinto padre Enrico a seguirlo, uscì dalla chiesa e scese in piazza. In pochi minuti tutto l’esercito fu davanti a loro. Vedendo i ministri il generale scese da cavallo e si avvicinò a loro, Don Pietro atteggiandosi sicuro di sè fu il primo a parlare: “Vostra signoria, vengo a portarle la vicinanza mia e di tutta la cittadinanza belmontese! Siamo vicini con la preghiera a lei, al suo esercito e al nostro re Ferdinando, che Dio non smetta di benedirlo.”
Io sono riconoscente verso tutti voi, e sono sicuro della vostra buona fede” disse Filangeri, “ma se la popolazione belmontese ci è così vicina, come mai il paese è deserto? Dove sono i belmontesi?”
Ah l’avevo dimenticato, sono andati tutti in pellegrinaggio a Tagliavia per pregare la Madonna del Rosario affinché nel nostro regno arrivi la pace e il nostro santo re Ferdinando torni al suo trono, così come voluto da Dio.”
Va bene reverendo, farò finta di crederla. Questa notte io con i miei uomini rimarremo qui, ci accamperemo alle porte del paese; se andrà tutto bene andremo via viceversa…” La pausa conclusiva lasciava trasparire le intenzioni poco amichevoli del Generale.
Andrà sicuramente tutto bene, Dio è con voi. Anzi, affinché egli vegli sempre su di voi, voglio benedirvi con il S.S. Sacramento” propose don Pietro.
Grazie reverendo, accetteremo con riconoscenza il suo gesto.”
Sentito questo, padre Enrico si precipitò in chiesa a prendere l’Ostensorio con la Santa Ostia.
Benedetto l’esercito, i due ministri si ritirarono convinti di aver scongiurato ogni pericolo. Ma le cose sarebbero andate diversamente…

Voi rimarrete qui, al mio segnale farete fuoco. Noi scenderemo aggirando l’accampamento ed entreremo in azione dopo che voi sparerete, cercheremo di coglierli di sorpresa. Ci riusciremo! Il tempo dei Borbone è finito.” Cosi Marcello, chiamato Serpe preparò gli uomini all’azione. Lui stesso si era imposto tale nome perché si vantava di essere stato la serpe in seno di Filangeri, infatti da ufficiale borbonico era diventato capo dei rivoltosi.
Trenta uomini cominciarono a scendere il fianco della montagna, approfittando dell’oscurità – era infatti una notte senza luna – aggirarono l’accampamento e si stesero a terra armi in pugno.
All’improvviso si senti lo squittio di una civetta, era Serpe a fare quel verso: il segnale convenuto.
Gli uomini rimasti sul monte cominciarono una pioggia di schioppettate, i soldati sentendo gli spari ricambiarono il fuoco nascondendosi dietro i carri, mostrando, come previsto da Serpe, le spalle al suo gruppo di fuoco. Una pioggia di fuoco si riversò sulle spalle dei soldati.
Serpe maledetto!” urlò Filangeri intuendo chi avesse pianificato quell’imboscata.
Continuando a sparare, il due gruppi dei rivoltosi cominciarono lentamente ad avanzare; fin quando non si udì un galoppo di cavalli provenire dal fondo valle. In pochi istanti sarebbero stati su di loro. Serpe, avendo capito il giogo del generale, ordinò la fuga.
Ragazzi è finita, fuga! fuga!”
Gli uomini all’istante cominciarono a fuggire verso la montagna, ma per molti di loro il segnale di resa arrivò troppo tardi. Già la cavalleria era sopra di loro.

Il generale sapendo di trovarsi nel paese di Serpe, da qualche anno sua spina nel fianco, e conoscendo le sue abilità in battaglia, preparò il suo piano: col favore delle tenebre, ormai quasi giunte, posizionò la cavalleria in una gola a valle, dando ordine al comandante dello squadrone di vegliare tutta la notte perché era sicuro che sarebbe arrivata un’azione di Serpe. Alle prime schioppettate lo squadrone doveva risalire il fianco della montagna e, arrivato all’accampamento bloccare i rivoltosi.

Gli uomini che riuscirono a non venire catturati fuggirono sui monti intorno al paese, sicuri che Filangeri avrebbe trovato pace solo dopo che la forca sarebbe passata su di loro. Il generale li cerco tutta la notte non riuscendo a trovarli, ma aveva già in mente un altro modo per vendicare gli uomini morti.
Terminata la caccia, Filangeri pieno di rancore diede gli ordini per attuare il suo infido piano.
Bruciate tutto, ogni casa, ogni stalla, niente rimanga intatto soltanto ceneri fumanti.”
I due ministri di Dio, rifugiatosi a pregare nella chiesa Miseremini, fermatosi gli spari pensarono che il peggio fosse passato. Furono smentiti dalle fiamme che cominciavano ad inghiottire il piccolo borgo. Usciti fuori e capite le dimensioni della tragedia che davanti ai loro occhi si stava consumando, corsero dal generale implorando pietà.
Filangeri con una battuta imbevuta di un sorriso perfido liquido i due preti: “Non preoccupatevi reverendi padri! la casa di Dio non sarà violata. Ai suoi paesani lasceremo il luogo dove piangere e redimersi dalle loro colpe”.

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