Rivolte d'amore; capitolo 2
I ragazzi rimasti in cima
al Bosco sentirono le schioppettate provenienti da Montagnoli
e capirono che si trattava di un’azione di Serpe e la sua banda, ma
in cuor loro speravano che si concludesse con una disfatta dei
borbonici, purtroppo quella stessa notte scoprirono che le loro
speranze erano state vane…
Qualche ora dopo, il fuoco
appiccato dagli uomini di Filangeri cominciò, sotto i loro occhi, a
distruggere il paese. Assistendo all’immane tragedia non riuscivano
a proferire parola, la rabbia rimase dentro di loro quasi
soffocandoli. Intanto le donne giù a Piano Casale vedendo la
colonna di fumo salire da dietro la montagna, intuendo ciò che era
accaduto, cominciarono a piangere battendosi il petto. Nino, visto il
fumo e sentite le grida disperate, prese una giumenta e la lancio al
galoppo verso la cima del monte.
Stefano, che si era
assopito, sentendo le grida corse impaurito verso sua madre: “Mamma
che succede?” gli chiese tremante.
“Cose tinte,
cose tinte Sté.”
In quell’istante il
piccolo vide suo padre partire al galoppo.
“Dove va papà?”
Vedendo che sua madre non
trovava parole per rispondere, non chiese più nulla.
Nino torno dopo qualche
ora, sceso da cavallo, barcollante si appoggio ad un fico. Era
sconvolto: troppo dolore aveva portato quella vista.
Dopo qualche minuto, si
issò su una roccia e cominciò a parlare: “Belmontesi, per noi è
il tempo di versare le lacrime. I Borbone hanno bruciato il nostro
paese, non abbiamo più nulla; ma non temete, ricostruiremo tutto e
con l’aiuto di Dio verrà il tempo del nostro riscatto, quel giorno
l’oppressore borbonico lascerà questa terra e finalmente la
Sicilia sarà libera!”
Nel pomeriggio due ragazzi
scesero dalla vetta per prendere qualche provvista e raccontare
quanto era accaduto: gli spari a Montagnoli, il bruciare del
borgo, l’esercito vagante tra le ceneri… Il suo racconto si
interrompeva spesso a causa dei continui pianti sgorganti dal suo
volto.
“Quando potremo tornare
in paese?” chiese una delle donne.
“L’esercito si è
accampato alla Pianotta
e ancora sembra non aver minima intenzione di andarsene.” Detto
questo salì sulla cavalcatura, che gli uomini avevano nel frattempo
caricato di provviste, e andò via.
Trascorsero altri cinque
giorni prima che i belmontesi poterono riprendere la strada di casa.
Scendendo verso valle,
l’angoscia cominciò a penetrare nell’animo dei paesani. Esplose
arrivati alle porte del paese, era davvero tutto finito, la
distruzione totale li accolse. Finalmente Stefano prese coscienza di
ciò che era avvenuto: non c’era più nulla del suo mondo.
Sentendosi sconvolto si nascose dietro un masso a piangere
dolorosamente.
Giunti in quel che
rimaneva della piazza, i belmontesi trovarono don Pietro che li
aspettava. Vedendolo, zio Franco – che era il sacrestano – lo
abbraccio piangente.
“Non temere figlio, non
temere” continuava a ripetergli.
I Cascio avevano avuto
sempre grande vanto dall’aver ricevuto nel 1752 le proprie terre
direttamente dalle mani di Giuseppe Emanuele III Ventimiglia principe
di Belmonte. Da subito gli antenati di Stefano avevano messo le terre
a coltura, tuttavia, durante la carestia del 1793 che a causa di una
protratta siccità aveva compromesso la produzione di grano; nonno
Titta decise che avrebbe smesso di coltivare le terre e sarebbe
passato alla pastorizia.
Andò dai parenti di
Misilmeri, paese d’origine della famiglia, e con la mediazione di
zi Tino aveva comprato venti pecore. Da allora fino alla sua morte,
avvenuta nel 1830, si era occupato del gregge portandolo a ottanta
capi. Dopo la sua dipartita, le pecore passarono nelle disponibilità
dei quattro figli maschi che si divisero i capi tra loro.
Già da due anni il
piccolo Stefano si era messo alla sequela di suo padre nella custodia
del piccolo gregge, che alla famiglia assicurava cibo per tutto
l’anno.
Fortunatamente in quel
maggio 1849 le pecore di Nino erano insieme a quelle del fratello
Giovanni nelle terre della Rossella, per questo a loro non
toccò il tragico destino dei capi che stazionavano nei feudi attorno
al paese: bruciate vive nel rogo dei campi in cui pascolavano.
“Padre perché hanno
bruciato tutto?” chiese un giorno Stefano.
Erano trascorsi sei mesi
da quella bruttissima pagina della storia della comunità belmontese.
Da allora Nino, come tutti gli uomini del paese, si era impegnato
nella ricostruzione del borgo, trascurando i suoi interessi: le sue
pecore erano rimaste nel gregge di Giovanni. Quella mattina insieme a
suo figlio si era recato a fare legna per le impalcature delle case
da ricostruire, adesso che il sole era al tramonto avevano caricato
il mulo stavano tornando in paese.
“Perché… perché…
lo so io perché!” rispose Nino, innervosito dal pensare a quella
tragedia, “perché ci odiano, sti Borbone ci odiano… Nonostante
questo non voglio andarsene, anche se non gli interessa niente di
noi… niente di niente…”
“Se l’hanno
bruciato loro perché non ci aiutano a ricostruirlo?” rincalzo
Stefano.
“Aiutarci… chi quelli…
Già è una fortuna che non vogliono tasse!”
Un anno dopo, i belmontesi
scesero in piazza armati di bastoni, tridenti, vanghe e pale…
“Noi tasse a questi no
ne paghiamo più!” gridava la gente inferocita, dirigendosi verso
la casa comunale.
Sentendo le urla, il
Decurione aprì leggermente la porta al primo piano che dava sulla
strada, e vide arrivare quasi tutti i duemila abitanti del paese.
Da qualche giorno girava
la voce che Ferdinando batteva di nuovo cassa, rivoleva i tributi
sospesi dopo il Real incendio del paese.
“Non paghiamo… non
paghiamo…” la folla continuava ad urlare. Alcuni ragazzi
cominciarono a tirare sassi verso la casa comunale diretti al primo
piano, dove si sapeva esserci il Decurione.
Fattosi coraggio si
affacciò: “Concittadini calmatevi! Sappiate che sono il primo dei
belmontesi a capire l’ingiustizia di pagare le tasse a coloro che
hanno distrutto il paese, ci hanno lasciato in ginocchio con Belmonte
da ricostruire… e hanno il coraggio di chiedere tributi ad un
popolo alla fame. Ma purtroppo non abbiamo scelta, dobbiamo pagare…
ma non temete, la nostra liberazione è vicina”.
I belmontesi, convinti dal
loro primo cittadino, demorsero e tornarono alle loro case.
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