Rivolte d'amore; capitolo 4
19 maggio 1860
“Chi si crede questo
Garibaldo? Questo senza Dio… una settimana fa sbarca a Marsala, si
crede a casa sua, e cinque giorni fa… quella di cinque fa non la
sapete? a Salemi si proclama dittatore usurpando il nome del nostro
Re, il nome di Francesco II.
“Ma lo conoscete
quest’eroe dei miei stivali? … sapete chi è?... Dite ai vostri
figli che qualche anno fa, questi ha avuto il coraggio di spodestare
il nostro sommo papa Pio IX dal suo regno santo; soltanto
l’intervento del nostro compianto re Ferdinando II, che Dio l’abbia
in gloria, ha potuto rimettere il santo padre nel posto che gli
spettava per volontà di Dio… Ditele queste cose ai vostri figli…
È un senza Dio!”
Queste parole infuocate di
padre Angelo– subentrato alla morte di don Pietro come parroco di
Belmonte – nell’omelia della prima messa sconvolsero le pie donne
del paese che impaurite raggiunsero le loro case. Anche mamma
Giuseppa ascolto la predica di padre Angelo, nel tragitto verso casa
ripensò alla discussione avuta dai loro figli la sera prima…
“… Titta, ci vieni o
no?” chiese per l’ennesima Stefano al fratello.
“Ma ho mia moglie, i
bambini…” rispose titubante.
“Meglio, sarai il loro
eroe!”
“Ma da dove si
comincia?”
“Te l’ho già detto!”
riprese il fratello minore, “domani sera andremo a Misilmeri dai
picciotti di La Masa, il Generale passerà da lì.”
“Figli miei!” sbottò
papà Nino fino ad allora taciturno, “sapete i rischi che correte?
Ricordate ai tempi passati com’è finita in paese per mettersi
contro i Borbone?”
“Papà stavolta sarà
diverso! Il giorno della riscossa è ormai giunto!”
Giunta in casa,
Giuseppa trovo l’ormai anziano marito seduto nella piccola jittena
davanti casa, dal suo sguardo la moglie capì
che era accaduto qualcosa: “Dov’è Stefano?” chiese preoccupata
dal non vederlo.
“Sono già andati…”
rispose Nino, asciugandosi una lacrima.
“Oh Madonna! Titta
pure?”
“Pure lui, ha la testa
più da mulo di suo fratello!”
“Non dovevano andare
stasera?”
“E invece hanno
anticipato… accidenti a loro e a sto Generale!”
Dopo la vittoriosa
battaglia di Calatafimi, i Mille, a cui lentamente si aggiunsero
centinaia di volontari provenienti dai centri percorsi strada
facendo, continuarono l’avanzata in terra di Sicilia. Gli uomini di
Garibaldi quasi senza colpo ferire superarono Alcamo e Partinico,
raggiungendo in pochissimi giorni Parco. Da lì, si diressero verso
l’interno dirigendosi a Piana dei Greci, a Piana furono accolti da
una popolazione festante che assicurò loro tutto quanto ebbero
bisogno durante i due giorni di sosta nel loro paese.
Sconfitti in quel di
Calatafimi, i borbonici con parte dell’esercito di stanza a Palermo
si misero alla ricerca di Garibaldi e dei suoi uomini. Intuendo
questo, il Generale fece arrivare loro la notizia che si sarebbe
diretto a Corleone. Egli realmente si diresse verso quel borgo, ma,
giunto a Malanoce deviò con la stragrande maggioranza dei
suoi uomini verso Pianetto, ordinando soltanto ad un piccolo
manipolo di uomini di dirigersi a Corleone per illudere i comandanti
dell’esercito borbonico. A Pianetto dormirono qualche ora e
alle prime luci dell’alba scivolarono sul fianco della montagna
verso Piano Casale, dirigendosi verso la Mendola e da
lì scesero a Misilmeri dove La Masa e i suoi picciotti li
aspettavano.
“… Viva Garibaldi,
viva l’Italia…” gridavano le due ali di folla che circondarono
subito il Generale al suo arrivo in paese.
Arrivato in piazza scese
da cavallo e andò incontro ai picciotti pronti a morire per
la sua causa.
“Cascio vieni salutare
il Generale!” esclamò La Masa, portandolo verso Garibaldi che era
di spalle, voltatosi, Stefano lo vide da vicino: era un uomo sulla
sessantina in camicia rossa e pantaloni beige, al collo una lunga
collana che entrava in tasca, dove probabilmente aveva l’orologio,
per uscirne penzolante sul petto, i fianchi cinti da una cintura nera
a cui era appesa una sciabola. L’aspetto era rassicurante pur nella
sua fierezza da condottiero.
“Generale, le presento
uno dei nostri più valorosi picciotti:
Stefano Cascio di Belmonte!” esclamo La Masa. Era davvero uno dei
più valorosi giovani volontari: aveva convinto la stragrande
maggioranza dei belmontesi a seguirlo nella causa antiborbonica.
“E per me un onore
servirla!” esordì Stefano.
“Onore mio, prode
giovane!” disse Garibaldi, dando al giovane una pacca sulla spalla.
Verso sera, il piccolo
esercito – ormai forte di circa tremila uomini – partì alla
volta di Gibilrossa da dove poteva avere un’ampia vista su Palermo,
e quindi decidere meglio la strategia per la sua conquista.
L’indomani mattina per
Stefano la sveglia arrivò alle 3 e mezza.
“Cascio sai sparare?”
gli chiese uno dei capi di quel piccolo esercito.
Stefano al sentire quella
voce si rese conto di averla già sentita, anche le sembianze non gli
erano totalmente estranee.
“Allora… sai sparare o
no?”
“Sì, Signore!” Non
era vero, ma tant’è.
“Allora tieni!”
esclamò quell’uomo, dandogli uno schioppo ed un sacchetto con le
munizioni.
“Serpe vieni!” gridò
qualcuno.
Quello dello schioppo si
giro e rispose: “Qua sono, arrivò!”
Stefano subito si rese
conto: era Marcello, l’eroe che stava beffando Filangeri. Dal
giorno dell’incendio di lui si erano perse le tracce; nessuno
sapeva che fine avesse fatto. Il ragazzo riconobbe la voce e le
sembianze perché prima dei moti l’avevo incontrato con suo padre
nei campi, sempre fuggiasco.
La discesa verso Palermo
fu lenta è silenziosa, man mano che scendevano – mentre il sole
cominciava a sorgere sulla Conca d’Oro – vedevano sempre meglio
le sagome delle navi ormeggiate nel porto: una battente bandiera
inglese e le altre due borboniche. La strategia concordata era
chiara: forzare l’ingresso da Porta Termini passando per il ponte
Ammiraglio.
Giunti nella riva
dell’Oreto, i Mille videro nell’altra sponda l’ordinato
esercito borbonico che avanzava verso il ponte. All’improvviso
qualcuno suonò la carica e gli uomini si lanciarono sul ponte a
tamburo battente.
“Voi fermi!” gridò
Serpe agli uomini con gli schioppi, “tirate da qui… fuoco sul
nemico… a morte i borbone…”
A quest’ordine, partì
una raffica di fuoco verso il nemico. Per Stefano fu il battesimo di
fuoco, mai aveva sparato; nonostante questo, il primo colpo ferì un
fante borbonico ad un fianco. Sul ponte gli uomini di Garibaldi
lottavano con ardore riuscendo lentamente ad avanzare.
“Fuoco, fuoco!” ordinò
di nuovo Serpe. A quell’ordine partì un’altra pioggia di
schioppettate.
Sotto i colpi si aprì una breccia nello schieramento
del nemico, lì si infilarono i nostri e in un baleno furono
sull’altra sponda. I fucilieri, visto ciò, corsero sul ponte e si
fermarono nel centro – la parte rialzata – e scatenarono una
raffica di schioppettate che dispersero il nemico e l’obbligarono a
lasciare le posizioni.
“Avanziamo verso Porta
Termini!” ordinò Garibaldi, che grazie ai rapporti di Pilo e La
Masa aveva una perfetta mappatura mentale dell’intera Palermo.
Giunti lì, lo scontro si fece più intenso. La superiorità numerica
dei borbonici era evidente, però i garibaldini trovarono un alleato
inaspettato: i palermitani. Infatti, vedendo gli uomini di Garibaldi
in difficoltà scesero in strada armati di qualunque cosa: forconi,
siede, tavoli, pietre e, via, via tutto ciò che gli veniva tra le
mani andarono addosso ai borbonici.
“Oh, ma cos’è questo
fischio?” chiese Stefano al picciotto
accanto.
“Ma da dove vieni?”
domandò retoricamente lui. “Bombeee… occhiooo…!” urlo mentre
una delle bombe sganciate dalle navi borboniche andava a schiantarsi
a poca distanza da loro. L’esplosione che segui ferì mortalmente
l’ungherese Tüköry, ciò accese ancor più forte la ferocia dei
garibaldini che con un’eroica ondata sfondarono la Porta ed
entrarono in città.
Nonostante
l’indiscriminato bombardamento della città e la superiorità
numerica del nemico, i garibaldini – grazie soprattutto alle
barricate costruite dagli abitanti di Palermo e ad una scadente
catena di comando nell’esercito borbonico – già il 30 maggio,
tre giorni dopo l’ingresso in città, concessero l’armistizio
chiesto dai borbonici. Il 6 giugno l’esercito di Francesco
capitolo: Palermo era conquistata!
Per il giovane esercito
garibaldino fu una grande vittoria: le urla festose dei palermitani
lì accompagno tutta la notte.
All’alba – aveva
passato la notte nel sagrato della Chiesa del S.S. Salvatore – si
insospettì vedendo una carrozza che risaliva il Cassaro: gli sembrò
di averla già vista da qualche parte. Incuriosito la seguì, la
vettura si fermò all’improvviso poco prima del piano della
Cattedrale. Stefano, in un lampo, si nascose nella viuzza di fronte
al palazzo dove il cocchio si era fermato, non togliendo lo sguardo
da esso. Apertosi lo sportello della vettura, vide scendere Rebecca e
stava per andarci incontro, quando dall’altro lato i conti Moncheda
aprirono lo sportello; anche loro erano in carrozza. Visto questo,
Stefano all’istante torno a nascondersi. Quando i tre entrarono nel
palazzo il portone si chiuse alle loro spalle e la carrozza si
allontanò.
Evidentemente, allo
scoppio dei tumulti palermitani, i conti si erano trasferiti nella
loro villa della Bagheria; per ritornare ora che era tornato tutto
quasi alla normalità.
Stefano, memorizzato bene
dove si trovava il palazzo, sicuro che sarebbe ritornato; torno nei
ranghi dei garibaldini.
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