Rivolte d'amore; capitolo 7
“Presidente!!...
ma che hanno in testa sti savoiardi?... Il debito lo abbiamo
fatto per aiutare Garibaldi e dobbiamo pagarlo noi?...” gridò un
uomo, mentre nel salone parrocchiale infuriava il dibattito della
seduta del primo consiglio comunale dopo l'annessione.
“Qualcuno
queste 624 onze deve pur pagarle?” rispose il presidente.
“Noi
non pagheremo nulla! …” risposero dalla folla, “cosa daremo da
mangiare ai nostri figli?...”
“Figlioli,
calmatevi... ascoltate!” irruppe padre Angelo, “questi
pover'uomini non hanno di che sfamarsi; come faranno a pagare
quest'iniquo balzello?”
“E
lei cosa dice di fare?” chiese il presidente.
“Io
consiglio di far pagare il debito a chi può pagarlo: i possidenti, i
proprietari terrieri...”
Sentito
questo, il dottor Del Grosso – consigliere comunale – prese la
parola: “Sentite! Se siete d'accordo io farei pagare chi possiede
almeno tre tummini di terra, 250 pecore o 20 vacche...”
“Va
bene dottore, votiamo!” esclamò il presidente, che già no ne
poteva più. “Cancelliere, ai voti: votiamo la risoluzione Del
Grosso!”
I
favorevoli furono sei i contrari tre: il consiglio approvò.
Uscito
dal salone parrocchiale, lì si era tenuta la seduta, Stefano vide
venire incontro a lui la sorella Rosa correndo: “Stè... sta
nasc... endo...” disse col fiatone.
“Madonna
santa...!” esclamò Stefano, cominciando a correre verso casa.
Arrivato, corse lungo le scale; mentre saliva senti il primo vagito
di suo figlio.
“Ch'è
successo?” domandò, giunto sopra.
“E'
nato Sté, guarda ch'è bello!” esclamò mamma Giuseppa,
mostrandogli il nascituro: un bellissimo bambino di carnagione
chiara.
Guardandolo
si commosse e si voltò verso Rebecca, esausta. “Hai visto cosa hai
fatto?” chiese a lei baciandola in fronte. “E' bellissimo...
bellissimo... Ti amo da impazzire...”
“Anch'io
ti amo...” bisbigliò Rebecca con un filo di voce.
Ad
inasprire il già teso rapporto tra i belmontesi è Torino, arrivò
la chiamata alla leva dei nati nel 1840 Giovanbattista compreso.
“Rebecca
ma che dici?” chiese papà Nino preoccupatissimo.
“Gnorpadre
mi dispiace, ma c'è scritto quello che le ho detto... gliela
rileggo: Giovanbattista Cascio di anni 21, il 15 del corrente mese
deve presentarsi al porto di Palermo per partire alla volta di Napoli
e da lì per Torino, per ivi adempiere agli obblighi militari come
stabilito dalla legge n. 63 del 30 giugno 1861. La durata di
tale obbligo è fissata in anni cinque.” La lettera venne letta
dalla giovane nuora perché era l'unica ad avere la littra.
Titta
era pietrificato, soltanto papà Nino sembrava avere la forza di
reagire: “Uno campa un figlio ventuno anni per darlo a loro, ma poi
cinque anni... E poi dov'è sta Torino, dov'è?”
“Padre
calmatevi...” irruppe Titta, più spaventato di lui ma deciso a
tranquillizzare suo padre, “non mi succederà nulla, e poi è la
legge.”
“Ma
che legge e legge” riprese Nino, “ma lo capisci che vai a
rischiare la vita per loro: I Savoia! Ve lo dicevo che con loro
sarebbe stato peggio...”
Tant'è,
tra le grida di suo padre, e le preghiere di sua madre e sua moglie,
il 15 luglio Titta partì alla volta di Torino.
“Io
voglio portarglielo!” ribadì un giorno Rebecca.
“Ancora
lo ripeti?... ma non ricordi come ti disprezzò allora?...”
“Lo
ricordo benissimo, ma è sempre mia madre... deve conoscere mio
figlio...”
“Lascia
perdere, ti disprezzerà ancora.”
“Va
bene, come vuoi tu...” chiuse lei, ma la sua mente già aveva
pianificato.
Quella
mattina, approfittando dell'assenza del marito – da due settimane
alla Cannavata con le pecore – mise in azione il suo piano:
all'alba si alzò, preparò il piccolo fagotto e, dicendo a mamma
Giuseppa che andava a messa, uscì di casa. Invece di andare in
Chiesa, però, cominciò a salire per la Giarritedda; giunta
alla Portella di Palermo iniziò a scendere per la scala.
Giunta
ai Chiavelli stremata, si fermò: era senza fiato. Una donna un po'
aldilà con gli anni si accorse di questa giovane forestiera con
questo bimbo tra le braccia, e gli si avvicinò: “Dove vai figlia
mia?”
“Sto
andando... in città...” rispose Rebecca ansimando.
“Sei
stanchissima, entra, riposati un po'...” disse l'anziana,
prendendola per il braccio e accompagnandola dentro casa. “Siediti”
continuò porgendole una sedia, e dandole un po' d'acqua: “Bevi,
riprenditi”.
“La
ringrazio per le sue premure madre santa.”
“Niente,
niente... piuttosto dove vai sola con questa mattinata, con questo
piccolo?” La donna guardando la giovane, ma soprattutto ascoltando
il suo elegante modo di parlare, aveva capito che quella era una
donna di sangue nobile e per questo incuriosita aveva posto tale
domanda.
“Madre
mia la storia è lunga e complicata, le dico soltanto che vengo da
Belmonte e sto andando al Cassaro a far conoscere questo dono di Dio
a mia madr...” A quel punto la giovane si commosse e non riuscì
più a proseguire. L'anziana donna, vedendo tale accoramento si
guardò dal porre altre domande. “Aspettami qui un attimo!” disse
alla giovane uscendo. Si era posta l'obiettivo di aiutarla.
Torno
poco dopo: “Figlia mia purtroppo se ne sono andati” disse
rattristata.
“Ma
chi? chi se ne andato?...” chiese Rebecca.
“Avevo
pensato di farti accompagnare da mio nipote Paolo che, con la moglie
Luigia, ogni giorno scende al Capo col carro per andare a
vendere pesche.”
“Madre
mia non doveva, non c'era bisogno... Anzi vado!” esclamò
alzandosi, ormai pronta ad andare.
”Facciamo
così...” riprese l'anziana, intenzionata a non demordere, “se
devi tornare oggi stesso in paese, quando ti sbrighi vai al loro
banco del mercato e gli dici che ti manda zia Menica e che devi
tornare con loro ai Chiavelli.”
“Madre
santa, la ringrazio con tutto il cuore!”
“Niente,
Dio mi ricompenserà!”
“Sicuramente...”
chiuse Rebecca, uscendo da lì.
Avanzando
a piedi verso Palermo, spesso Rebecca dovette fermarsi: il caldo era
tanto fin dalla mattina, l'afoso tipico dell'estate siciliano.
Intorno alle 11, dopo circa due ore di cammino, la giovane arrivò in
vista del Palazzo Moncheda. Prima di avvicinarsi troppo si fermò un
attimo per riposare e sistemare un po' il bambino e se stessa, ed
anche per prepararsi emotivamente all'incontro con i suoi genitori:
non sapeva come l'avrebbero accolta.
Giunta
vicino al portone, Nunzia la vide dalla finestra e col cuore in gola
scese velocemente le scale. Rebecca, arrivata sulla soglia
d'ingresso, venne bloccata da un lacché – era uno nuovo, la
giovane non l'aveva mai visto. “Lei chi è?” chiese lo
sconosciuto.
“Cosa...
chi sono io?... ma che sta dicendo?...” balbettò Rebecca,
incredula di quella domanda. Comunque fattasi coraggio fece per
rispondere, “Io sono Reb,,,”
“Rebecca...
Rebecca mia...” disse Nunzia correndo verso di lei, “e questo
bimbo?... non dirmi che è tuo!” esclamò arrivata da lei baciando
il piccolo.
“Mio
è... mio, si chiama Antonino!”
“Bellissimo,
bellissimo davvero... Ma vieni entra.”
“No!”
esclamò il lacché, “se non l'annuncio alla contessa non entra
nessuno!”
“Ma
è sua figlia!...” ribatté Nunzia.
“Appunto,
la contessa mi ha raccomandato di annunciarle l'eventuale venuta di
sua figlia!”
“E
va bene, mi annunci pure...” chiuse Rebecca.
“Da
quando sei andata via qua sono diventati tutti pazzi” disse
Nunziatina a Rebecca, mentre il lacché andava ad annunciarla.
Torno
pochi istanti dopo e disse: “Può entrare!”
“Grazie!”
esclamò Rebecca con apparente calma, ma dentro la sua anima
ribolliva.
Salite
nervosamente le scale, con Nunziatina al seguito, Rebecca si diresse
nella camera dove sua madre soleva accogliere gli ospiti. Lì infatti
la trovo.
“Salve!”
disse freddamente la contessa. E chiese: “Che vuoi?”
Rebecca,
che invece di ricevere parole calde e dolci, magari un abbraccio,
come si sarebbe aspettata, si senti porre questa glaciale domanda;
rispose: “Niente voglio... sono venuta a farti conoscere mio
figlio...” Mentre diceva questo distese le braccia come per
porgergli il piccolo. “Antonino si chiama!”
La
madre lo guardò a stento. “Bel bambino...” disse soltanto, quasi
distrattamente. Nessun segno d'affetto, nessuna parola consolatoria
uscì dalla sua bocca.
“Dov'è
mio padre?” chiese alla madre. Convinta che forse suo padre gli
avrebbe potuto trasmettere quell'affetto negato dalla madre.
“Non
c'è, è uscito...”
Vedendo
la totale chiusura da parte di sua madre, Rebecca capì che era
meglio andarsene e lasciar perdere...
“Allora
vado?...”
“Come
vuoi!” rispose gelida la contessa.
“Va
bene... Ti saluto madre...” disse baciandola sulla guancia,
cercando di nascondere il fuoco che gli bruciava dentro.
Uscita
da lì, si precipitò lungo le scale; Nunzia la seguì, riuscendo a
raggiungerla quando era già quasi al portone. “Ferma!” gridò
afferrandola per un braccio. “Rebecca... ti chiedo scusa per il
comportamento di tua madre... non capisco cosa le ha preso... Io ti
voglio bene e sicuramente anche lei.”
“Tu
Nunzia non devi chiedermi scusa per lei... so che tu mi vuoi un gran
bene, ma ho capito che qui sono ormai di troppo. Ciao!” chiuse
scappando via.
Si
fermò dietro l'angolo lasciandosi andare ad un pianto amaro.
Sentendo il pianto di sua madre, anche il piccolo Antonino cominciò
a piangere. Ripresasi poco dopo, ebbe il suo ben da fare per calmare
il bambino. Quando il piccolo smise di piangere, Rebecca si diresse
al mercato del Capo...
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