Rivolte d'amore; capitolo 10
Ormai
da due mesi, Matteo non smetteva gli di pensare a lei, l'aveva vista
al ritorno da una dura giornata al pascolo con le pecore. Il sole già
era scomparso dietro Billimunti ma avrebbe ancora assicurato
luce per un po', era stata una giornata piovosa di inizio dicembre
però sul finire del dì il sole era tornato diradando le poche
nuvole rimaste. Scendendo da Santa Caterina, alle prime case
la vide con la coda degli occhi affacciata alla porta-finestra; non
si fermò per non insospettire nessuno. Sapeva benissimo chi era lei:
si trattava di Francesca la figlia di massaro Cola, l'unica figlia
femmina, a cui seguirono cinque maschi.
La
rivide alla veglia di Natale e lì, quando lei furtivamente ricambiò
lo sguardo, capì che sarebbe stata la donna della sua vita...
Quella
sera, dopo aver cenato dai suoceri – come sempre avveniva, in tutte
le case il focolare si trovava nel piano terreno – Rebecca, con
Stefano e i piccoli si apprestò a salire sopra, dove avevano i loro
giacigli; non aveva fretta di andare a dormire ma di dedicarsi a
quella che riteneva una sana abitudine: la breve lezione di Ninuzzo.
Si era convinta dell'importanza che suo figlio, come lei, sapesse
leggere e scrivere. Aveva preparato tutto: per il pennino, la carta e
il calamaio aveva chiesto a padre Angelo – uno dei pochi
alfabetizzati del paese – inoltre aveva predisposto un banchetto e
una piccola sedia. Quando cominciavano a salire le scale, Ninuzzo
sapeva che era ora di patire, non capendo l'importanza di
alfabetizzarsi – nessun bambino della sua età studiava – per lui
era un tormento, ma si prestava lo stesso.
“Allora
Nino, scriviamo: G come...?”
“Gatto!”
“Bravo,
scrivi gatto.! Adesso I come...?”
“Isola!”
“Bravo
il mio ometto... L come...?”
“Limone!”
“Non
tenerlo troppo!” esclamò Stefano, “è stanco, oggi ha lavorato
come un uomo: ha munto dieci pecore. Diglielo Nì...”
“Sì,
bello è stato...”
“Lo
so che sei un ometto, però per esserlo fino in fondo devi imparare a
leggere” replicò Rebecca.
“Rebecca
scendi subito!” esclamò mamma Giuseppa dal piano terra, urlando
nella scala; “subito però!”
Dal
tono di voce, la giovane capì subito che era successo qualcosa di
grave, per questo si precipitò giù per le scale.
“Che
succede mamma...?” chiese una volta giunta.
“Contessa
di Moncheda? Lei è?” chiese in risposta un uomo ancora all'uscio,
che Rebecca ancora neanche aveva notato.
“Sì,
io sono...”
Sentita
la risposta, l'uomo si decise ad entrare. Era un uomo sulla
quarantina ben vestito, dagli abiti si capiva provenisse dagli alti
ceti della società.
“Contessa,
porto ambasciata dalla contessa sua madre...”
“Mia
madre...?” esclamò Rebecca, stupita di essere ancora nei pensieri
di sua madre.
“Sì,
la contessa di Mondragone” rispose quell'uomo, “si tratta della
salute del conte; quest'inverno ha aggravato notevolmente il suo asma
peggiorando il suo stato di salute, aggravamento che è causa di
continue crisi respiratorie, una delle più gravi l'ha colpito la
notte scorsa. La contessa mi ha detto di dirle che suo padre sta
molto male e che non è detto che sopravviva, tuttavia ha espresso
volontà di vederla. E' troppa in lui la paura di morire prima di
rivederla.”
Rebecca
a quelle parole stava per mancare, fortuna che aveva una sedia
vicina. Lì si sedette ansimante: da un lato era felice che suo padre
non l'avesse dimenticata, dall'altro era assai dispiaciuta di non
trovarsi al suo capezzale.
L'uomo,
finito di parlare se ne andò, scomparendo all'improvviso, così
com'era apparso.
A
Rebecca, rimasta immobile, l'invasero migliaia di altri pensieri. Non
capiva cos'era giusto fare. All'improvviso risolse, decidendo sul da
farsi...
Quella
mattina un forte vento freddo sferzava il viso di Rebecca, all'alba
erano partiti per raggiungere al più presto la città, adesso
scendendo dalla scala non smetteva di pensare a suo padre,
nonostante quello che era successo a causa di Stefano, Rebecca aveva
benigni ricordi suo padre: l'aveva coccolata tanto da piccola,
chiamandola principessina la faceva sentire amata.
A
passo svelto arrivarono al Cassaro prima che il timido sole
invernale fosse alto.
Risalendolo, a metà strada tra i quattro canti e il palazzo, videro
davanti a loro, anche se ancora distante, una suora che lentamente
come loro risaliva il viale. Rebecca e Stefano non ci fecero neanche
caso, ma mentre stavano per superarla Rebecca sentì una mano che le
afferrava un braccio.
“Ehi
ma cos'è...?” esclamò la giovane girandosi di scatto verso la
monaca.
“Rebecca
figlia mia!...” urlò la suora, ormai sicura di chi avesse davanti.
“Sorella...
ma ci conosciamo...” ribatté Rebecca dubbiosa. Ma poi: “Nunzia!...
tu!” esclamò, riconoscendola.
“Oh
Rebecca... non posso crederci!” continuò Nunzia abbracciandola.
“Stefano,
hai capito chi è?” chiese la giovane al marito, ormai sciolto
l'abbraccio.
“Certo!
La cara Nunziatina. Sorella, è una gioia immensa vederla” disse
lui.
“Adesso
però, sono suor Maria Annunziata.”
“Da
quanto tempo?” chiese Rebecca.
“Sono
passati sei anni” cominciò la suora, “quando sei venuta a
Palazzo l'ultima volta capii che quello non era più il mio posto.
Rimasi molto male del comportamento che tua madre ti riservò, e poi
senza di te la casa mi sembrava vuota, non aveva più senso restare
ancora lì. Quella sera andai a dormire da una mia cugina
all'Albergheria e lì restai per qualche mese, poi decisi di prendere
la vita conventuale, andai alle Collegine della Sacra Famiglia:
l'unico ordine sopravvissuto alla furia garibaldina. Lì fui ordinata
col nome di suor Maria Annunziata... Scusa ma tu che fai qui?”
chiese a conclusione.
“Ho
saputo di mio padre...”
“Anch'io
sto andando lì, è un brav'uomo” ribatté la monaca. “Sta molto
male adesso!”
“Lo
so... è stato un buon padre... povera me... se perdo lui sarà la
fine di tutto...” riprese Rebecca piangendo.
“Su!
Figlia mia, coraggio, non ti abbattere... Andiamo insieme...”
Giunti
all'androne, l'usciere chiese loro che si annunciassero.
“Sono
Rebecca la contessa di Moncheda e questi è mio marito!” quasi urlò
la giovane.
L'usciere,
anche se insospettito dagli abiti tutt'altro che nobiliari dei due,
quasi intimorito dal tono della voce di lei, li lascio entrare
seguiti dalla colleggina.
Al
piano superiore, Stefano si fermò poco oltre l'ingresso mentre
Rebecca e suor Annunziata andarono verso le stanze. Dirigendosi verso
la camera da letto, incontrarono il medico ed un presbitero che
andavano via; questo inquietò non poco le due che affrettarono il
passo. Davanti camera, Rebecca sospirò un attimo ed aprì. Entrando,
vide suo padre agonizzante nel letto, un colpo allo stomaco fu per
lei vederlo lì in quello stato. Con la coda degli occhi incrociò lo
sguardo di sua madre che guardando lei si carico di odio; Rebecca non
curandosene la salutò con un cenno del capo e corse al capezzale di
suo padre.
“Papà
sono qui!” esclamo Rebecca stringendogli la mano.
“Rebecca...
tu... figlia mia... ti aspettavo...” bisbiglio il conte con il filo
di voce che gli rimaneva.
“Qui
sono papà, solo per te, non andrò più via...”
“Oh...
amata figlia...” sussurrò suo padre spirando.
“Papà!...
padre!... non lasciarmi!...” gridò la giovane muovendogli la mano,
carezzandolo; ma niente avrebbe potuto risvegliarlo, aveva ormai per
sempre lasciato questo mondo.
Sentite
le urla, Stefano corse verso le stanze ed entrato dov'era il suocero
morto, sentì Rebecca che ancora urlava e gli andò accanto cercando
di calmarla, non riuscendoci.
Le
ventiquattrore ore successive, Rebecca le volle trascorrere lì,
vegliando il corpo inerte del suo amato padre. In quelle tristi ore,
la giovane notò tutta l'astio e il risentimento che sua madre
nutriva per lei. La contessa madre trasformava i tentativi della
figlia di avvicinarsi a lei, di cercare il contatto con la sua mano,
di parlarle in occasioni per mostrare il suo profondo rancore per
lei.
Solo
l'indomani mattina, uscendo dalla cattedrale – dove si era tenuto
il funerale – Rebecca riuscì a sfogare le tensioni di quelle ore.
Il vuoto incolmabile che suo padre dentro di lei aveva lasciato, la
consapevolezza del odio profondo di sua madre verso di lei la fece
scoppiare in un pianto inarrestabile; Stefano con le sue parole che
sempre l'avevano calmata stavolta non riuscirono in nessun modo a
consolarla. Pianse lungo tutta la strada che la conduceva a Belmonte;
solo davanti casa, per far capire poco della sua sofferenza ai suoi
figli, riuscì ad arrestare il suo pianto.
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