Storia di Belmonte

Il Feudo

Le prime notizie certe del feudo Menzagno risalgono al 2 ottobre 1439, quando viene citato nel testamento di Pietro di Afflitto. In esso si dice: “Essere stato posseduto il detto Feudo da’ suoi antichi”.
Pietro lo trasmise ai suoi discendenti in linea primogeniale maschile, successero:
- Baldassarre d'Afflitto fu Pietro. 
- Pietro d'Afflitto fu Baldassarre (1441).
Baldassarre d'Afflitto fu Pietro (1462) morto in minore età; gli successe il fratello .
- Nicolò Antonio d'Afflitto fu Pietro (1462).
- Pietro d'Afflitto fu Nicolò Antonio (1534).
- Vincenzo d'Afflitto fu Pietro (1564); 
- Pietro d'Afflitto fu Vincenzo (1576).
- Vincenzo d'Afflitto fu Pietro (1595).
 Alla morte di Vincenzo, alla moglie Elisabetta Morso, fu concesso il titolo di Principessa da Filippo IV il 2 settembre 1627. Questo avvenne dopo che il figlio dei due, Marchisio d'Afflitto, battezzò la Baronia definendola Principato di Belmonte, atto inserito nel Real privilegio di popolare il feudo (Licentia Populandi) concesso dal Re il 22 agosto 1625. Nonostante l’ottenimento della Licentia, il principe Marchisio non riusci a popolare il feudo di Belmonte.
Essendo morto senza figli, a Marchisio successe il fratello Alvaro. Egli sposò Giovanna Alliata, dal loro matrimonio nacque Isabella. 
Ella sposò Agesilao Bonanni, Morta Isabella senza figli, il titolo fu ereditato dal cugino Vincenzo (1648). 
Egli sposò Ninfa Bellacera, dal loro matrimonio nacque Gerardo Melchiorre d'Afflitto. 
Questi sposò Giovanna Gaetani, dal loro matrimonio nacque Ninfa d'Afflitto, ultima erede della casata.
Ninfa d'Afflitto sposò Francesco Ventimiglia separando i destini di Belmonte da quelli della famiglia d'Afflitto. infatti, da allora il feudo Belmonte passò tra i possedimenti della nobile famiglia Ventimiglia.

I Ventimiglia principi di Belmonte 

I Ventimiglia costituiscono una linea di discendenza siciliana di un lignaggio ligure, di probabile origine franca, reale e imperiale, molto potente e influente nella storia culturale, politica ed economica dell'isola - e non solo - dal XIII secolo al XIX secolo. Per lunghi tratti della seconda metà del Trecento ressero un'ampia signoria indipendente, riconosciuta, tra gli altri, dallo Stato della Chiesa, nel periodo dei cosiddetti Quattro Vicari del Regno di Sicilia.
Fra i rappresentanti più importanti e in vista della nobiltà in Sicilia, i Ventimiglia presero il nome dalla città ligure di Ventimiglia della quale però non erano i conti, ma detenevano soltanto piccole quote signorili in condominio con i cugini del ramo principale, cioè i Lascaris, detentori della contea di Ventimiglia in qualità di ramo primogenitale.
Il lignaggio trasferitosi in Sicilia, al contrario, proveniva dal comitato episcopale di Albenga, in cui deteneva la contea del Maro e il feudo delle decime episcopali. Da qui, la denominazione di questa branca Ventimiglia del Maro. Dopo la metà del XIII secolo i Ventimiglia del Maro cedettero ogni residuo diritto sulla contea di Ventimiglia, signoria che rimase totalmente in possesso dei Lascaris di Ventimiglia (ramo primogenito dei Ventimiglia).

I Ventimiglia del Maro in Sicilia dettero vita a due lignaggi principali: quello dei conti-marchesi di Geraci e quello dei del Bosco Ventimiglia. Il ramo della famiglia Ventimiglia futuri principi di Belmonte, deriva da quello dei marchesi di Geraci. Questo lignaggio deriva da Enrico II Ventimiglia, nato nel 1230 e morto nel 1307, egli fu conte di Ventimiglia, del Maro, di Geraci e di Ischia Maggiore, signore di Gangi e delle Petralie, signore di Gratteri e Isnello, Caronia, Belici, Fisauli, Montemaggiore, capitano e vicario generale di re Manfredi di Svevia. Espropriato da Carlo I d'Angiò dei feudi, sia in Sicilia sia in Liguria, Enrico ne ottenne la restituzione attraverso l'alleanza con la Repubblica di Genova e con Federico III di Aragona. Fu ambasciatore degli Aragonesi di Sicilia a Genova nel 1300.
Il pronipote di Enrico, Francesco II, alla sua morte, avvenuta nel 1387, divise per testamento in due parti le sue proprietà per destinarle a due dei suoi numerosi figli. A Francesco III diede il Marchesato di Geraci, ad Antonio destinò la Contea di Collesano, sarà il suo lignaggio ad ottenere il feudo di Belmonte. 
Il discendente di Antonio, Don Francesco Ventimiglia – nel XVII secolo – fu, infatti, colui che unì definitivamente i destini di Belmonte con quelli della famiglia Ventimiglia, sposando Donna Ninfa Afflitto, titolare del feudo, diventa, infatti, Principe di Belmonte, oltre a questo era già Conte di Collesano Barone di Gratteri e di Santo Stefano di Bivona. 
Dal matrimonio di Don Francesco Ventimiglia con Ninfa d'Afflitto nacque Gaetano Ventimiglia; egli s'investi del titolo di Principe di Belmonte il 18 novembre 1697. Gaetano non prese moglie-
A Gaetano successe il fratello Vincenzo che sposò Maria Anna Statella. Dal loro matrimonio nacque Giuseppe Emanuele III Ventimiglia principe di Belmonte e fondatore del paese.


Giuseppe Emanuele III Ventimiglia principe di Belmonte  


Da enciclopedia Treccani:
Giuseppe Emanuele III Ventimiglia principe di Belmonte nacque a Palermo, l'8 luglio 1716, da Vincenzo Ventimiglia e da Maria Anna Statella.
Nel 1725, alla morte del padre, ereditò le sue proprietà divenendo quindi: Principe di Belmonte, Conte di Collesano, di S. Eufemia, Conte di Parma, Barone di Gratteri, Lascari e di S. Stefano di Bivona, signore degli stati e terre delle Rosselle, del Mezzagno, S. Biagio, Suro, Purace, Carbone, Chianetti, Pinato, Bappadi, Magagirafì, Amizzo, Contuberno, Finocchiara, Misita, Noro, Castagna, Donna, Margiamuto, Norazzio, Prato, Fontanelli, Bosco, Canneti, S. Pietro, marine del Pileto e della Bomana ecc.
Il 17 settembre 1736 viene nominato capitano di giustizia della città di Palermo, questo costituirà il primo passo verso incarichi più impegnativi nelle magistrature siciliane. Infatti, nel maggio del 1744 viene nominato "pretore" e messo così a capo dell'amministrazione palermitana.
Il giovane patrizio si rivelò alacre ed attivo: ancor prima di entrare in possesso del suo ufficio segnalava al viceré gli inconvenienti e disservizi notati nei diversi rami della pubblica amministrazione. Egli denunciava ritardi nell'organizzazione degli approvvigionamenti di carne, incuria nell'accantonamento delle scorte di grano, destinazione di entrate pubbliche a scopi diversi da quelli per cui erano state introitate, ritardi nella stesura dei contratti di concessione delle gabelle. In ultimo notava che una parte delle somme esistenti nel fondo di riserva, creato dal Senato per sopperire ad eventuali minori introiti, era stata prelevata e destinata, senza che sussistessero le condizioni di emergenza previste, ad altri scopi.
A questa chiara visione delle necessità della cosa pubblica rispondeva in Giuseppe Emanuele la capacità di assumere pronte iniziative. Lo dimostrano i provvedimenti di difesa militare da lui adottati, ad esempio quando, in seguito ad una pressante richiesta vicereale, prevenì l'attacco d'una squadra navale inglese, grazie ad un sollecito intervento in Senato.
La carica di "pretore" lo mise, tra l'altro, a capo della Suprema generale deputazione di Salute pubblica che aveva il compito di organizzare e coordinare tutti i servizi sanitari dell'isola. Egli svolse le funzioni di quest'ufficio in un momento particolarmente delicato, mentre ancora imperversava in Messina e nella zona circostante l'epidemia colerica esplosa l'anno prima; sua prima preoccupazione fu, pertanto, riorganizzare i servizi della Deputazione e dare disposizioni perché un rigoroso isolamento venisse assicurato alla zona infetta col rafforzamento dei cordoni di truppa esistenti intorno ad essa.
Nel maggio del 1745 il Principe concluse questa esperienza di pubblico amministratore e, possiamo dire, positivamente, tanto è vero che a distanza di pochi anni, nel maggio del 1748, venne di nuovo chiamato allo stesso incarico. Nel 1750 e nel 1758 fu deputato del Regno, nel 1751 venne chiamato dal viceré a far parte della Deputazione dei proietti, nominata per organizzare in tutta l'isola servizi idonei a proteggere l'infanzia abbandonata.
Nel 1752 Giuseppe Emanuele Ventimiglia chiese ed ottenne, da re Carlo III, la “licentia populandi" per il feudo di Belmonte, nascerà così Belmonte Mezzagno.
Nel 1757 venne nominato, per la seconda volta, capitano di giustizia. La validità dell'opera da lui svolta trovò riconoscimento anche presso la corte napoletana: nel 1759 Carlo III di Borbone, nel lasciare il Regno – per prendere la Corona spagnola – gli concedeva il cordone di S. Gennaro e lo nominava gentiluomo di camera del suo giovane successore, Ferdinando IV. Iniziava così il cursus honorum del Principe presso la corte borbonica: l'anno seguente il consiglio di reggenza lo inviava a Venezia come ambasciatore straordinario per comunicare ufficialmente al governo della Repubblica l'avvento di Ferdinando IV al trono delle due Sicilie. Egli, che era giunto a Venezia nel giugno del 1760, vi si trattenne fino al gennaio del 1761, data del suo ritorno a Napoli, ove prese a risiedere per svolgervi le sue mansioni di gentiluomo di camera del sovrano. Nel giugno 1767 venne nominato maggiordomo maggiore della regina, due anni dopo maggiordomo maggiore del re e nel settembre 1771, da Carlo III, grande di Spagna di prima classe.

Giuseppe Emanuele Ventimiglia morì il 2 marzo 1777, a San Giorgio a Cremano, presso Napoli.

La Licentia Populandi

Adesso vediamo meglio cos’era la Licentia Populandi e che diritti dava al suo possessore.
La Licentia Populandi veniva concessa come ricompensa per particolari servigi resi alla corona. Con la licenzia il feudatario acquisiva la giurisdizione civile e penale sul paese e sugli abitanti.
Prestigio e vanità erano fattori che inducevano i feudatari a popolare le loro terre. Ma i veri motivi erano da ricercare negli enormi vantaggi economici e politici che l'impresa poteva offrire. Infatti, connesso con la giurisdizione feudale era il governo politico, economico e sociale della nuova popolazione. E qui insieme alla possibile smania di vanità, il barone soddisfaceva anche precise aspettative economiche. La più appariscente era la riscossione delle tasse. Inoltre, un nobile che fondava un nuovo comune con almeno ottanta case aveva diritto al titolo di principe e un seggio nel Parlamento siciliano, veniva cioè elevato al ruolo di Grande di Spagna.
Ma più consistenti erano i vantaggi derivanti dalla messa a coltura delle terre baronali; da questo punto di vista, ogni nuova famiglia che si trasferiva nel nuovo centro abitato era una nuova unità produttiva che si poneva al servizio del feudatario. Ciò accadeva in un particolare momento storico durante il quale la mancanza di grani in Sicilia diventata assillante ed era difficile potersene procurare nel bacino del Mediterraneo. La scarsità dei grani aveva provocato il comprensibile rialzo dei prezzi per cui il prodotto era abbastanza remunerativo per chi avesse voluto dedicarsi alle colture.
Naturalmente l’impresa non era esente da rischi. In quanto presupponeva un notevole investimento anticipato di capitali per la costruzione delle case, delle strade, della chiesa, del fondaco e per le anticipazioni sul raccolto che nel caso di fallimento dell'operazione (se ad esempio, in tempi brevi non si fossero trasferiti numerosi coloni dai paesi vicini a popolare il nuovo centro) potevano andare perduti. A tale scopo molti feudatari non solo concedevano gratuitamente il terreno per la fabbrica delle case ai singoli coloni, ma esentavano gli stessi per un decennio dal pagamento dei tributi e dei servizi feudali.
Importantissime, per la buona riuscita dell’investimento erano la scelta del sito e le condizioni (patti agrari) offerte dal feudatario ai nuovi coloni. È ovvio che il feudatario per attirare nel comune appena fondato coloni dei paesi vicini, doveva offrire condizioni migliori di quelle esistenti nei paesi circostanti. La scelta del luogo dove insediare l’abitato doveva essere attentamente studiata. Era fondamentale la presenza dell'acqua, la vicinanza alle strade carrabili e a cave per il materiale da costruzione, terreno fertile da poter concedere in enfiteusi e in quantità tale da costituire un incentivo per i futuri abitanti; si e constatato che quasi sempre i nuovi comuni sorsero in siti dove esisteva già una qualche struttura abitata, fosse essa un casale, un piccolo agglomerato di case o altro.

Chiesa Madre S.S. Crocifisso  

La Chiesa è collocata nella parte superiore della piazza principale, nel centro del paese. Artisticamente c'è da notare: il Prospetto imponente ma equilibrato e una bella e originale scalinata a due bracci, scalone realizzato sulle orme delle ville settecentesche che si rifà ai temi del tardo barocco a cui del resto si ispira tutto il prospetto.
Il corpo della Chiesa ha una superficie di 200 mq.; la facciata si innalza per circa 30 mt. La costruzione della Chiesa, iniziata nel 1772, è stata completata dopo 4 anni. E' stata eretta canonicamente il 26 febbraio 1776.
Di notevole pregio, al centro del prospetto sopra il portale, è lo stemma dei Ventimiglia. Ai lati di esso il Principe di Belmonte, tenne molto alla posa di due lastre marmoree, recanti delle scritte che sono il "Curriculum" di sé:
D.O.M.
JOSEPHUS EMMANUEL VENTIMILLIUS
NORMANNUSS SVEVUS ARAGONEUS;
UT AD ARAM HUIUS TEMPLI
PROPRIO AERE EXTRUCTI
SACRIS QUOTIDIE QUATOR
DEO O.M. LITETUR,
PERPETUO INSTITUIT
QUAE ANIMABUS CARISSIMIS
MARIAE ANNAE STATELLAE
MATRIS OPTIMAE
ET ISABELLAE ALLIATAE
CONIUGIS DULCISSIMAE
SIBIQUE EXTREMA PRAEVIDENTI
AC POPULI HUIUS RELIGIONI ESSENT PROFUTURA
A Dio Ottimo Massimo
Giuseppe Emanuele Ventimiglia Normanno, Svevo, Aragonese. Perché ogni giorno si celebrassero i Sacri Misteri a Dio Ottimo Massimo all'Altare di questo tempio costruito nel proprio feudo, in perpetuo istituì. Affinché le Verità Eterne fossero di giovamento alle anime carissime di Maria Anna Statella ottima Madre e di Isabella Alliata dolcissima coniuge, a se stesso, e alla religione di questo popolo.

D.O.M.
JOSEPHUS EMMANUEL VINTIMILLIUS
COMES ALBINTEMELII, GOLISANI,
GRATTERI, LASCARIS, ET SANCTI STEPHANI
PRINCEPS BELLIMONTIS EX PRIMO MAGNATUM HISPANORUM ORDINE
EQUES SANCTI JANUARII
POST TERTIAM IN URBE PANORMITANA
QUAESTURAM MALEFICIORUM
ALTERAMQUE PRAETURAM,
TERTIO XII=VIR REGNI CURATORUM
REGIUS AD VENETOS SOLEMNITER LEGATUS;
REGI CAROLO A CUBICULO.
DOMUS REGIS FERDINANDI
SUPREMUS PRAEFACTUS
OPPIDO AEDIFICATUM INCOLIS ACCITIS
TEMPLUM A FUNDAMENTIS EXCITAVIT
A.D. MDCCLXXVI.
A Dio Ottimo Massimo
Giuseppe Emanuele Ventimiglia Conte di Albitemeli, di Collesano di Gratteri, di Lascari e di S. Stefano, Principe di Belmonte, Cavaliere di S. Gennaro del Primo ordine dei Grandi di Spagna. Tre volte questore e due volte pretore nella città Palermitana, uno dei dodici pari del regno, ambasciatore regio ai Veneti, supremo prefetto del Re Carlo dalla Nascita, della casa della Regina Carolinae quindi del Re Ferdinando. Edificata la città, accolti gli abitanti, questo tempio innalzò dalle fondamenta.
Anno del Signore 1776.

L'interno della Chiesa, a navata unica, è arricchito all'abside da un magnifico crocifisso voluto, intorno al 1772, da Giuseppe Emanuele Ventimiglia che ne curò personalmente la realizzazione.
Oltre a questo ne fece costruire un altro per la Chiesa di Santo Stefano di Quisquina: altro borgo presente nei suoi possedimenti.
Il crocifisso ligneo, di sicura scuola napoletana, sofferma lo sguardo dell'osservatore su un Cristo morente, quindi sofferente ma ancora vivo.
Notevoli sono i due Altari nelle pareti laterali della Chiesa: su di essi si trovano due grandi tele, raffiguranti una S. Rosalia l'altra la S. Famiglia: attribuite alla scuola di Pietro Novelli.
A meta navata, sulla destra, è visitabile il Battistero di S. Giovanni Battista; arricchito da un altare dedicato all'Immacolata Concezione.

Uscendo, nella parte alta, è visibile il coro e l'imponente organo a canne.





 Giuseppe Emanuele IV Ventimiglia Cottone principe di Belmonte   


Degna di nota, è la figura del nipote ed omonimo del fondatore del paese.
Giuseppe Ventimiglia nacque a Palermo nel 1766, figlio primogenito del principe Vincenzo e di sua moglie, Anna Maria Cottone di Castelnuovo, di tradizioni costituzionaliste. Sin dalla gioventù venne inviato a studiare a Roma presso il Collegio del Nazareno per poi dedicarsi ad un gran tour in Europa, toccando tappe importanti come il viaggio in Italia, Svizzera, Impero, Ungheria e Polonia. Durante quest'ultimo viaggio conobbe ed accompagnò il sovrano Stanislao Poniatowski al suo primo incontro con la zarina Caterina II, facendo quindi seguito all'imperatrice sino a Kiev ed a Kherson, navigando lungo il Dnieper. Giunto in Crimea, da qui raggiunse la Moldavia e la Valacchia facendo tappa a Bucarest, attraversando poi la Prussia, la Sassonia e quindi giungendo in Francia ed in Inghilterra. Tornato a Parigi, qui conobbe sua cugina Charlotte Ventimille, del ramo francese della sua famiglia, e la sposò prima di fare ritorno con lei in patria.
L'ambiente culturale che ritrovò a Palermo era intriso dei personaggi patrocinati da suo zio Carlo, principe di Castelnuovo, ed ebbe perciò corrispondenze con l'astronomo Giuseppe Piazzi e con Paolo Balsamo tra gli altri. Si batté negli inizi dell'Ottocento per il mantenimento dell'Accademia Palermitana degli Studi, minacciata di chiusura dallo stesso re Ferdinando IV che era intenzionato a ripulirla dell'impronta libertaria che aveva assunto ed a restituirla ai gesuiti.
In quegli anni re Ferdinando viveva in Sicilia perché Napoli era occupata dalle truppe francesi guidate dal maresciallo dell’impero di Francia – nonché cognato di Napoleone – Gioacchino Murat. Ferdinando IV riusciva a soffocare sul nascere ogni tentativo di rivolta del popolo siciliano, il quale non sopportava l’idea che la Sicilia fosse considerata dal Re subalterna rispetto a Napoli, grazie all’appoggio dell’esercito inglese.
Il Belmonte fu uomo di idee liberali, per questo presto divenne una delle figure chiave quando gli inglesi si adoperarono per restituire ai Borbone la loro corona nell'Italia meridionale, dopo la caduta dei francesi: lord Horwick (futuro conte Grey e primo ministro inglese) lo teneva in grande considerazione per una possibile intesa anglo-sicula al fine di sconfiggere il "partito" dei sostenitori della regina Maria Carolina che appoggiava i francesi di Murat. Proprio per questo scopo il Ventimiglia si pose a capo di 30.000 uomini armati volti a difendere la forma di governo esistente contro la proprietà dei particolari e i privilegi dei diversi ordini. Tra questi privilegi che il Ventimiglia riteneva ormai intollerabili vi era una sorta di tassa fissa che la Sicilia doveva pagare al governo di Napoli senza motivazione e che rimandava a una specie di donativo medievale; egli propose al contrario una imposta fondiaria basata su un catasto da preparare e solo in seguito una eventuale imposta indiretta per coprire il gettito eventualmente insufficiente.
Appoggiò apertamente Luigi Filippo d'Orléans, genero del re, e chiese alla regina l'allontanamento dei ministri napoletani, nonché la fondazione di una amministrazione siciliana indipendente, dove i baroni potessero avere un ruolo significativo nel governo centrale una volta che Napoli fosse stata riconquistata alle truppe dei napoleonici. Assieme ad altri 43 baroni, il Ventimiglia venne però arrestato la notte tra il 19 ed il 20 luglio del 1811 e con altri tre venne rinchiuso nel castello di San Giacomo a Favignana. L'accusa ufficiale furono una serie di lettere che il governo aveva intercettato, nelle quali il principe dimostrava di avere una corrispondenza col principe ereditario d'Inghilterra, nel quale egli paventava, se necessario, una volontà da parte del popolo siciliano di utilizzare anche le armi contro il governo per far valere i propri diritti, e dove chiedeva un appoggio ufficioso della Gran Bretagna a queste operazioni. Rimase in prigionia, malgrado lo stato di salute precario, sino al 20 gennaio 1812 quando venne liberato per intervento di lord Bentinck.
Da subito il Ventimiglia con altri si adoperarono per la stesura di una prima costituzione siciliana che si rifacesse il più possibile a quella inglese, che rappresentava a sua detta un modello ideale di connubio tra democrazia e monarchia: il risultato fu la Costituzione siciliana del 1812.
Col congresso di Vienna, re Ferdinando tornò al potere ufficialmente anche sul trono siciliano e come risultato il Ventimiglia ed i suoi alleati vennero allontanati dai centri di potere. Nel tentativo estremo di salvare la costituzione siciliana in cui tanto aveva creduto, e per la quale si era battuto per un decennio, si recò a Parigi dove venne ricevuto da Luigi XVIII di Francia che, pur complimentandosi largamente con lui, non si impegnò a fare pressioni al governo borbonico perché riconoscesse delle assicurazioni politiche per la Sicilia e la sua costituzione.
Morì a Parigi, ormai minato irrimediabilmente dalla tisi, nell'ottobre del 1814.

I moti rivoluzionari del 1848-49


Nel gennaio del 1848, in Sicilia scoppiò un'insurrezione popolare, a cui successivamente si aggiunse la borghesia popolare, mossa soprattutto dalla volontà di ripristinare la Costituzione del 1812. La rivoluzione siciliana scoppiò il 12 gennaio 1848 in Piazza della Fieravecchia (oggi Piazza Rivoluzione) a Palermo, capitanata da Giuseppe La Masa. Dopo sanguinosi scontri, La Masa, al comando di un esercito popolare, riuscì a scacciare la luogotenenza generale e gran parte dell'esercito borbonico dalla Sicilia, costituendo un «comitato generale rivoluzionario». Il comitato generale istituì un governo provvisorio a Palermo; tra le felicitazioni generali e l'ottimismo, Ruggero Settimo, un liberale moderato appartenente alla nobiltà siciliana, venne nominato presidente. L'estensione del movimento insurrezionale alla Campania ed al resto del regno fu immediato. Il Re, dopo alcuni tentativi di frenare il movimento con caute concessioni, cercò di arginare le richieste liberali concedendo la Costituzione, per primo in Italia, con Regio Decreto del 29 gennaio.
La Costituzione venne promulgata l'11 febbraio e giurata il 24; Il 25 marzo del 1848 si riunì il Parlamento Generale di Sicilia, con un governo rivoluzionario presieduto da Ruggero Settimo e composto da ministri eletti dallo stesso presidente, che proclamò l'indipendenza dell'isola, nonostante l'appoggio concreto delle città siciliane al governo provvisorio di Settimo, le aree rurali divennero scarsamente controllate e agitazioni contadine misero in serie difficoltà le amministrazioni locali. Re Ferdinando, approfittando di questo, non fece tardare la sua reazione, decidendo di intraprendere una risoluta restaurazione assolutistica.
Nel settembre 1848, dopo aver richiamato in patria l'armata napoletana schierata in Lombardia ed aver sospeso le attività parlamentari, il Re decise di reprimere con la forza anche il separatismo siciliano, sopprimendo la rivoluzione e il Parlamento che da questa era stato eletto.
La gente di Sicilia, man mano che sentiva del ritorno dei Borbone, scappava di solito nelle montagne; e i Borbone, non vedendo nei paesi la gente, pronta ad accoglierli, distruggevano gli stessi paesi. Sorte che tocco a Belmonte Mezzagno.

Tutto cominciò il 7 maggio 1849 - già da qualche giorno i belmontesi erano fuggiti sulle montagne - verso le 7 di sera il generale Prono arrivò in paese con parte dell'esercito borbonico, ad accoglierlo trovò soltanto l'economo sacramentale Padre Luigi Mario Furitano, e il cappellano celebratario della Chiesa Miseremini (Anime Sante) Padre Angelino Moltisanti (in "nomen omen"). I due ministri andarono verso il Generale offrendo pace assicurando la fedeltà del popolo belmontese a re Ferdinando, affinché, il Generale non distruggesse il paese. Egli accettò l'offerta, Padre Furitano, come segno di riconoscenza, benedisse lui e l'esercito con l'ostensorio contenente il SS. Sacramento.
Le paure del Reverendo l'indomani, 8 maggio 1849, purtroppo, si concretizzarono: squadre ribelli venute da Palermo attaccarono i soldati nei monti intorno al paese, vedendo questo il Generale, dopo aver scacciato i ribelli, ordinò la distruzione del borgo. I soldati eseguirono l'ordine, lasciando in piedi soltanto la Chiesa Madre e la Chiesa Miseremini.
L'esercito rimase in paese 7 giorni, prima di rientrare a Palermo.
Quando l'esercito scomparve, i belmontesi scesero dai monti trovando le proprie case ormai ridotte in ceneri fumanti. Ai due Reverendi rimase l'orrore negli occhi e un popolo da consolare.

Belmonte nell'unità d'Italia


Dopo la distruzione del paese per mano delle truppe borboniche del 1848, con l'odio verso Ferdinando II che non era mai stato così alto, cominciò la ricostruzione di Belmonte.
I belmontesi per la ricostruzione delle proprie case non ricevettero alcun aiuto governativo, quindi, nonostante il "Real" incendio delle campagne, dovettero cavarsela da soli; ottennero soltanto di non pagare tasse. Ciò solamente fino al 1850, quando i belmontesi ancora alla fame dovettero ricominciare a pagare i tributi, per questo da quel giorno Belmonte divenne uno dei principali centri organizzativi della rivolta contro i Borbone. Tale odio cominciò a divenire movimento organizzato nel febbraio 1853, quando furono organizzati convegni a Parco (Altofonte), Belmonte, Mislmeri e Carini volti a preparare la rivolta. Dopo vari tentativi, il momento giusto sembrò essere arrivato il 4 aprile 1860, quando, a suono delle campane del convento palermitano della Gancia, Francesco Riso e i suoi 84 compagni, fra i quali numerosi belmontesi, tentarono con le armi di entrare nella capitale. Il tentativo, anche a causa della scarsa efficacia delle armi dei rivoltosi, falli ma fu il segnale che Garibaldi aspettava ...
Il 1° maggio 1860, dopo aver raggruppato un migliaio di volontari, la maggior parte dei quali del bergamasco, Garibaldi venuto a sapere del fermento rivoluzionario siciliano, diede l'ordine di partire.
Nella notte tra il 4 e il 5 maggio, Garibaldi e i "mille" salparono da Quarto su due piroscafi, il Lombardo e il Piemonte, e, dopo una breve sosta nell'isola di Talamone, l'11 maggio sbarcarono a Marsala. Il 15 maggio i garibaldini si scontrarono a Calatafimi (TR) con le truppe borboniche. Soprattutto a causa della scarsa preparazione degli ufficiali borbonici, che fecero moltissimi errori di strategia; i "mille" vinsero la battaglia e cominciarono ad avanzare verso Palermo.
Nei territori limitrofi a Palermo, cominciarono a sorgere truppe di irregolari a sostegno dei garibaldini. Tali squadriglie erano gestite da La Masa, egli radunò le truppe, forti di 5000 uomini provenienti da Belmonte, Mislmeri, Mezzoiuso, Corleone e altri paesi del circondario,a Gibilrossa. Belmonte Mezzagno, essendo il paese più vicino all'accampamento, servì da base strategica delle operazioni.
Il 20 maggio Garibaldi, ormai giunto a Misilmeri, volse alla volta di Belmonte in testa a 6000 uomini, che lo accolse con entusiasmo. Il 24 maggio, nelle campagne di Belmonte si svolse una sanguinosa battaglia fra le truppe borboniche e i garibaldini in gran parte formati da belmontesi. L'esito fu funesto per Garibaldi ma egli non si arrese, aiutato da La Masa il 25 maggio spinse gli avamposti nelle alture di Belmonte e con esse l'indomani sera inizio la discesa verso Palermo. Conquistata la città il 30 maggio, tutta la Sicilia venne rapidamente liberata; infatti, il 28 luglio l'ultimo soldato borbonico lasciò la Sicilia.
Il 21 ottobre 1860, anche a Belmonte si svolse il plebiscito (il referendum) per l'annessione del paese al nascente Regno d'Italia. Chiaramente le votazioni non avevano le garanzie che oggi le contraddistinguono: non era garantita la segretezza del voto, spesso espresso in modo palese con il sì spesso estorto dai signorotti locali con modi assai poco democratici.
A Belmonte il popolo si espresse favorevolmente all'annessione, più che altro perché credevano che con i piemontesi non avrebbero più avuto fame; queste erano le promesse. Molte di queste purtroppo vennero disattese causando numerose rivolte, la più sanguinosa fu quella del 7 e mezzo del 15 settembre 1866; che in Sicilia causo oltre 25 mila morti.

La fame a Belmonte continuò ancora a lungo e fu la principale causa della partecipazione del paese ai fasci siciliani.


Stefano Casella


Adesso propongo la storia di un belmontese dell'Ottocento. Tale approfondimento è stato realizzato da una grande appassionata di storia belmontese Joanna Calabrese Wilson, discendente come me del protagonista di questa storia; si tratta di Stefano Casella (il vecchietto nella foto), nato a Belmonte nel 1804 e morto nel 1892, di cui io per una serie di vicissitudini porto il nome: suo nipote Stefano (che portava il suo nome) era zio di mio nonno (fratello di sua madre Francesca Casella) nonché suo padrino di battesimo, siccome mio nonno era il più piccolo di 4 fratelli e una sorella lo chiamarono come il padrino. Io, portando il nome di mio nonno, di conseguenza porto il nome di Stefano Casella, suo bisnonno.

Ed ora ecco il contributo di Joanna:

Stefano nacque nel 1804 a Belmonte Mezzagno, in Sicilia, un paese insediato sulle colline fuori Palermo. La vita del paese ruotava attorno a famiglia, fede e agricoltura. Come molti ragazzi del paese, egli era figlio di un contadino che crebbe per diventare contadino a sua volta. All’età di 24 anni, Stefano sposò la diciannovenne Liboria D’Agostino. Iniziarono subito la loro famiglia, e la piccola Giuseppa nacque l’anno seguente.
Pandemia
Sfortunatamente, anche un piccolo batterio di nome vibrio cholerae era appena agli inizi.
Prosperando nell’acqua da bere contaminata, il colera si diffuse rapidamente in ampie sezioni del globo, inclusa la Sicilia. La piccola Giuseppa di due anni fu la prima a perire, nel 1831. Stefano e Liboria ebbero in seguito altri sette figli, ma almeno due se ne andarono prima del 1840. Poi accade l’impensabile: nell’estate del 1845, la stessa Liboria morì, seguita il mese successivo da sua figlia di 10 mesi, Alfonsa.
Stefano era adesso un padre solo con quattro figli da accudire. Fortunatamente, i suoi figli sopravvissuti, dai 9 ai 14 anni, erano abbastanza grandi per aiutare in casa e nei campi.
Rivoluzione Siciliana
La perdita personale di Stefano aveva come sfondo una sommossa politica in Sicilia. La crescente insoddisfazione nei confronti della casa reale dei Borboni fu lo sprone di diverse rivoluzioni. La rivolta popolare del 1848 fu ampiamente sostenuta a Belmonte Mezzagno. Per ritorsione, l’esercito dei Borboni invase il villaggio l’8 maggio 1849, causando la fuga degli abitanti del paese sulle colline. Il quarantaquattrenne Stefano e i suoi figli si trovavano fra di loro. Tra i fuggiaschi sulle colline si trovava anche la trentaduenne Eleonora Benigno con sua figlia di otto anni, Giuseppa Capizzi. Proprio come Stefano, Eleonora aveva perso il coniuge, Giovanni Capizzi, nel 1845, oltre a suo figlio più giovane.
L’esercito dei Borboni rimase per una settimana, per poi ritirarsi. Gli abitanti discesero dalle colline e scoprirono che ogni edificio del paese era stato ridotto in cenere, fatta eccezione per due chiese. Stefano e i suoi figli dovettero ricominciare daccapo. Ancora una volta. Stessa cosa per il resto di Belmonte, inclusa Eleonora e sua figlia.
Conforto
I documenti non rivelano perché Stefano ed Eleonora finirono assieme. Forse compresero il lutto e la perdita l’uno dell’altra come pochi altri potevano. A prescindere dal motivo, si sposarono nel 1851. La famiglia allargata comprendeva Stefano, Eleonora e i loro cinque figli superstiti. In seguito ebbero altri figli propri, nominando i primi due come i loro defunti coniugi, Liboria e Giovanni.
In attesa
La nuova famiglia Casella non era però estranea al dramma. Nel 1856, la figlia allora quindicenne di Eleonora, Giuseppa Capizzi, rimase incinta. Lei e il figlio ventitreenne di Stefano, Giuseppe, desideravano sposarsi. Questo presentò un dilemma più grande del solito perché Giuseppa non aveva un padre in vita o un nonno che potesse dare il consenso al matrimonio per la minorenne. Le autorità decisero di accettare il permesso congiunto di Stefano ed Eleonora. Stefano scrisse nel suo decreto di consenso che egli era “contenta chi il da lui figlio Giuseppe Casella inguaggiare (legare con promessa di matrimonio) con Giuseppa Capizzi.” Eleonora scrisse che era “contenta che la detta di lei figlia Giuseppa Capizzi si pocca inguaggiare con indetto Giuseppe Casella.”
“Contenta” e “contenta” – quali meravigliose parole da sentire da Stefano ed Eleonora dopo tutto quello che avevano sopportato. I fratellastri si sposarono il 28 luglio 1856, e la piccola Liboria (sì, un’altra Liboria) nacque 3 mesi più tardi – la prima nipote di molti per Stefano.
Ciò che hanno visto gli occhi
Stefano Casella morì nel 1892 all’età di 87 anni. La sua vita abbracciò la gran parte del 19º secolo. Riuscii ad assistere - e forse a partecipare - alla liberazione della Sicilia sotto Giuseppe Garibaldi, all’unificazione dell’Italia, e ai progressi tecnologici come il trasporto su rotaie e l’avvento della fotografia. Anche se Stefano attraversò calamità inimmaginabili durante la prima metà della sua vita, alla fine riuscì a vedere cambiare la sua terra natia, vide prosperare i suoi figli e vide crescere i suoi nipoti. Riuscì a vivere anche per accogliere l’arrivo dei bisnipoti, fra cui mia nonna Giuseppa (Josephine) Casella nel 1890.


Belmonte e i Fasci siciliani.


C'è una pagina della storia della Sicilia e di Belmontedi cui, purtroppo, si parla poco. Mi riferisco alla pagina dei Fasci siciliani, nonostante, l'ampia partecipazione di noi belmontesi a tali accadimenti.
Questa non vuole essere la sede per tentare di sciogliere nodi ancora insoluti che hanno interessato quelle vicende; tuttavia, essendo fatti importanti nella storia siciliana è importante saperne di più.

Intorno al 1891, nelle campagne della Sicilia nacquero movimenti di lavoratori, al quale aderirono contadini, operai, artigiani e intellettuali. Essi in 1° maggio 1891, data della fondazione ufficiale, vennero battezzati Fasci.
Sull'esempio dei fasci operai nati nell'Italia centro-settentrionale, il movimento fu un tentativo di riscatto delle classi meno abbienti e, inizialmente, era formato dal proletariato urbano, a cui si aggiunsero braccianti agricoli, "zolfatai" (minatori nelle miniere di zolfo), lavoratori della marineria ed operai. Essi protestavano sia contro la proprietà terriera siciliana, sia contro lo Stato che appoggiava apertamente la classe benestante. La società in Sicilia era all'epoca molto arretrata, il feudalesimo, sebbene abolito (dagli stessi aristocratici illuminati) agli inizi del XIX secolo, aveva condizionato la distribuzione delle terre e quindi delle ricchezze. L'unità d'Italia, d'altro canto, non aveva portato i benefici sociali sperati ed il malcontento covava fra i ceti più umili. Il movimento chiedeva fondamentalmente delle riforme, soprattutto in campo fiscale, ed una più avanzata normativa nell'ambito agrario, che permettesse una revisione dei patti agrari (abolizione delle gabelle) e la redistribuzione delle terre.
Le tensioni culminarono, il 20 gennaio 1893, con il massacro di Caltavuturo, dove, cinquecento contadini, di ritorno dall'occupazione simbolica di alcune terre del demanio, vennero dispersi da soldati e carabinieri armati di fucile, e tredici manifestanti caddero vittime. «In un primo tempo», scrive don Giuseppe Guarnieri, «la popolazione, nell'udire gli spari, pensò trattarsi di mortaretti fatti scoppiare in onore di San Sebastiano, ma ben presto fu chiara la tragica realtà di una inumana ed inutile strage che poteva e doveva essere evitata».
A seguito di tale massacro furono organizzate numerose manifestazioni di solidarietà sia da parte dei Fasci, che sul piano nazionale, ed aumentò l'esasperazione dello scontro sociale.

Il 21 e 22 maggio 1893 si tenne il congresso di Palermo cui parteciparono 500 delegati di quasi 90 Fasci e circoli socialisti. Venne eletto il Comitato Centrale, composto da nove membri: Giacomo Montalto per la provincia di Trapani, Nicola Petrina per la provincia di Messina, Giuseppe De Felice Giuffrida per la provincia di Catania, Luigi Leone per la provincia di Siracusa, Antonio Licata per la provincia di Girgenti, Agostino Lo Piano Pomar per la provincia di Caltanissetta, Rosario Garibaldi Bosco, Nicola Barbato e Bernardino Verro per la provincia di Palermo.

Vi chiederete, è Belmonte?
Nel maggio 1893, venne costituito il Fascio di Belmonte Mezzagno, sotto la presidenza di Francesco Italiano.
Il 14 luglio (anniversario della presa della Bastiglia: 14 luglio 1789) si radunarono in contrada Petrosino, vicino il paese, molti belmontesi per una manifestazione socialista.
Il 12 agosto venne organizzata una manifestazione che vide come protagoniste una cinquantina di compaesane.
L'indomani una delegazione di donne si recò alla caserma dei carabinieri per chiedere l'abolizione del dazio, la destituzione del Sindaco e lo scioglimento del Consiglio comunale. Il 15 agosto, 600 contadini e contadine sfilarono per le vie del paese. Questo pacifico corteo venne fatto sciogliere dal Sindaco. Tutte le donne presenti alla manifestazione furono arrestate.
Le manifestazioni di protesta, sopratutto, quelle contro le amministrazioni comunali sono state spesso represse con la forza, provocando morti e feriti.

Com'è finita? Male.
Infatti il presidente del consiglio, il siciliano Crispi, adottò la linea dura con un intervento militare comprendente esecuzioni sommarie e arresti di massa. Il movimento fu sciolto nel 1894 e i capi vennero arrestati dal Commissario Regio Roberto Morra di Lavriano. Il 30 maggio il tribunale militare di Palermo condannò i fondatori a pesanti pene carcerarie: Giuseppe de Felice Giuffrida a 18 anni di carcere, Rosario Bosco, Nicola Barbato e Bernardino Verro a 12 anni di carcere quali capi e responsabili dei Fasci siciliani. L'on. de Felice fu difeso in sede giudiziaria dall'avvocato siciliano G.B. Impallomeni.
Il 14 marzo 1896, con un atto di amnistia, venne concessa la clemenza a tutti i condannati in seguito ai fatti dei fasci siciliani.
Chiudo affermando che: al di là del giudizio degli storici, i Fasci siciliani sono stati un momento di grande partecipazione popolare e, come tale andrebbe studiato meglio; soprattutto durante il percorso di studi.


Emigrazione a Belmonte


Trattando di Storia di Belmonte, non si può non parlare dei belmontesi che tra la fine dell'Ottocento e gli inizi del Novecento decisero di lasciare il loro paese, per cercare fortuna fuori dall'Italia.
I motivi che li spinsero a partire sono da ricercare nella crisi economica che segui l'unificazione d'Italia del 1861, tale crisi nacque da un notevole aumento demografico. Questo portò ad una serie di insurrezioni popolari dovute anche all'incomprensione e l'indifferenza della nuova classe dirigente, per la nuova popolazione da loro amministrata, l'aumento delle tasse e dei prezzi di beni di prima necessità; l'aggravarsi della questione demaniale, dovuta all'opportunismo dei ricchi proprietari terrieri. Le cause del malcontento vanno ricercate proprio nella disperazione della maggior parte della popolazione delusa nelle sue decennali attese di giustizia.
Le condizioni che hanno favorito l’emigrazione siciliana, dipendono principalmente da uno squilibrio tra ammontare della popolazione, scarsa disponibilità di risorse produttive e condizioni di vita precarie.
Per analizzare il fenomeno migratorio siciliano, occorre tener conto di più fattori.
In primo luogo, bisogna tenere in considerazione le diverse condizioni, non solo economiche ma anche culturali esistenti nelle diverse zone di partenza. In secondo luogo bisogna prestare attenzione ai limiti normativi dell’epoca.
Nei paesi fondati sul latifondo, privi di una classe di piccoli proprietari, e in cui i contadini erano costretti a subire ogni tipo di maltrattamento da parte dei gabellotti, l’emigrazione inizia molto presto, già nella seconda metà dell’Ottocento. Qui gli uomini vendono tutto quello che possiedono per affidarsi ad un destino incerto che, in ogni caso, non poteva mai essere peggiore di ciò che si lasciavano dietro.
Nelle zone in cui esisteva la piccola e media proprietà, la situazione è certamente diversa. Il migrante non vendeva le proprie proprietà, ma le affidava alla moglie o ai parenti più vicini. Egli, infatti, intendeva ritornare per investire le proprie fortune nel paese di origine allargando le proprie proprietà o entrando a far parte del ceto di piccoli proprietari.
Entrando nel dettaglio dell'emigrazione belmontese il periodo preso in esame va dal 1892, anno in cui i primi migranti lasciarono il paese, al 1924. Il numero totale di belmontesi che migrarono in quegli anni è di 897; può sembrare un numero esiguo ma non lo è, perché la popolazione belmontese in quel periodo si aggirava intorno alle 4500 unità, quindi la cifra rappresenta quasi il 20% della popolazione.
I luoghi di destinazione principale furono: New York, con 401 unità; Pennsylvania, con 358 unità; più distanziate le altre mete, Missouri; Illinois; Ohio; Kansas; Louisiana; Michigan e New Jersey.
Riguardo al genere, il 69% furono gli uomini, quasi il 50% di questi erano manovali il restante contadini; e il 31% donne, l'80% di esse casalinghe. Quindi furono le persone più umili a lasciare il paese, la maggior parte di essi fecero fortuna nel nuovo mondo.
Dobbiamo essere fieri dei nostri emigranti perché dovunque andarono si fecero valere come grandi lavoratori portando alto il nome di Belmonte Mezzagno nel mondo.

Cappella delle Tre Croci



Adesso approfondiremo le nostre conoscenze della cappella delle Tre Croci:piccola perla incastonata nel patrimonio culturale e religioso di Belmonte Mezzagno.
Tutto nacque dalla devozione e dalla fede di Pietro Chinnici: egli, infatti, ebbe nel 1912 - stessi anni in cui furono sistemate le cappelle su pizzo Belmonte - l'idea di costruire una piccola cappella nel sito; ultimo segno belmontese nell'antica "scala" per Palermo.
La cappella fin da subito entrò nel cuore dei Belmontesi, infatti, oltre alle cure di Pietro Chinnici e della sua famiglia, tutti i belmontesi mostravano segni di profonda devozione ad essa: Rosari, Sante Messe, lumini ed ex voto non mancavano mai.
Col tempo la cappella cominciò a mostrare segni degli anni che passavano. Questo - unito ad una profonda devozione cresciuta dal conforto ricevuto dalle preghiere davanti ad essa, riuscendo con la preghiera a vincere lo sconforto della perdita della madre e di due figli - spinse il cugino Crescentino Spera
(permettetemi di dire, l'eroico cugino "Tinuzzu) nel 1974 a restaurarla. Da allora ogni anno, anche grazie alla sua spinte, nel mese di maggio viene celebrata una messa nel sagrato della cappella.

Prima Guerra Mondiale


Giunto è il momento di parlare della Prima Guerra Mondiale e del ruolo che i giovani belmontesi hanno rivestito nel combatterla e vincerla. Faremo questo in due modi:
  • raccontando la vita dello zio di mia nonna - nipote di Stefano Casella - Damiano Casella, che, come migliaia di suoi coetanei perse la vita nel conflitto, nel suo caso durante la battaglia di Caporetto;
  • leggendo il diario di guerra del fante Giuseppe Barrale, superstite del conflitto.

Damiano Casella 
Damiano Casella nacque a Belmonte Mezzagno da Giovanni e Melchiorra Traina il 21 gennaio 1892. Nel 1916 venne chiamato alle armi per andare sul fronte orientale, venne inquadrato nella 753° compagnia mitraglieri FIAT Milano, durante la XII battaglia dell'Isonzo - passata alla Storia come Caporetto - la Brigata Milano venne assegnata al 159° reggimento fanteria XXVIII Corpo d'Armata al comando del maggiore generale Alessandro Saporiti.
Con le sue grandi doti militari riuscì a sopravvivere alla disfatta, però il destino fu barbaro e baro, infatti, durante la ritirata i generali - proprio loro, i responsabili della sconfitta - decisero di far saltare tutti i ponti sull'Isonzo per evitare l'avanzata del nemico, senza aspettare che non ci fosse nessuno sopra. Damiano trovatosi in uno di essi, salto in aria con il ponte; ucciso dalle scellerate scelte del comando italiano. Era il 27 ottobre 1917.
Prima di morire aveva scritto la sua ultima lettera alla sorella: "Mia amabile sorella, ieri giuntami con vero piacere la tua cartolina alla quale rimasi graditissimo del tuo tenero affetto verso di me, ricordandoti il giorno beato della nostra bella Santa Rosalia.
Inviata la tua bella cartolina, grazie di cuore infinite per la tua bella cartolina a me con affetto inviata.
Tu abbia un mare di baci, saluti infiniti.
Tuo fratello, Casella Damiano."
Il Comune di Belmonte, riconoscente, scrisse il suo nome fra i caduti nel monumento di piazza della Libertà.
Siccome, nonostante le numerose ricerche del compianto Gianni Casella (suo nipote) e poi dalle sue anche le mie, non siamo riusciti a scoprire il luogo della sua sepoltura, nulla mi leva dalla testa che lui sia il milite ignoto del Vittoriano con due guardie che dal 1921 proteggono il suo riposo.

Giuseppe Barrale nacque a Belmonte Mezzagno 8 luglio 1891 da Giuseppe e Giovanna Traina. Egli, pur trovandosi sotto le bombe, il freddo e gli stenti della guerra, trovò la forza di scrivere il suo diario di guerra, affinché a tutti noi giungesse notizia di quanto stesse vivendo.
Il diario è scritto secondo le capacità di un giovane contadino belmontese del 1915: con alcuni errori ortografici e sintattici. Ma ciò conta relativamente, per questo l'ho lasciato intatto come lui ce lo ha lasciato; ascolterete i fatti direttamente dalla voce del protagonista.
Il diario è scaricabile dal link:

Madonna del Rosario


Tornando ai luoghi della spiritualità belmontese, adesso tratteremo della Storia - a tratti prodigiosa - della chiesetta Madonna del Rosario di Belmonte Mezzagno.
Tutto nasce dalla devozione ad un quadro un po' particolare. Il dipinto, che ritrae la Madonna del Rosario con accanto San Domenico in ginocchio, è stato trovato tra i sassi nel terreno antistante la chiesetta (al di sotto della strada), nel 1921 da dei contadini impegnati in lavori in quel fondo. Gli operai lo calcolarono come una cianfrusaglia e lo posero con poco interesse lontano da lì, l'indomani mattina, misteriosamente, il quadro venne ritrovato nello stesso punto dove era stato trovato il giorno prima. Non facendo particolare attenzione all'accaduto, i contadini lo tolsero nuovamente da lì; l'indomani stessa storia: il quadro di nuovo lì. A questo punto quegli uomini capendo che non si trattava di un quadro come tutti gli altri, costruirono una cappella - ancora rintracciabile all'interno della chiesa, entrando sulla sinistra - e ve lo posero.
Qualche tempo dopo, il proprietario del terreno dove sorgeva la cappella, decise di costruire la
piccola chiesetta che ancora possiamo ammirare, posizionando il quadro nell'abside.
I costruttori furono: Vischonte Benedetto; La Barbera Francesco; Tumminia Sebastiano; Greco Salvatore; Traina Francesco e Giuseppe; Chinnici Antonio; Martorana Filippo e Greco Giuseppe.
Col passare degli anni, qualcuno decise che sarebbe stato meglio posizionare nell'abside una statua che riproducesse il soggetto del dipinto, cosi fecero: scavarono una nicchia dietro l'altare, vi posero la statua coprendo l'abside con un vetro, poi tolto, e misero il quadro in un piccolo altare laterale.
Nella chiesetta, ancora oggi nel mese di maggio viene recitato quotidianamente il Rosario animato da un'anziana signora belmontese (che ringrazio per le preziose informazioni) che oltre a prendersi cura dell'aspetto estetico della chiesetta, cosa ancora più importante ne cura la memoria.
Questa storia ricorda molto da vicino gli avvenimenti che portarono alla costruzione della chiesa Madonna del Rosario di Tagliavia: anche lì nacque tutto dal misterioso ritrovamento di un quadro.

Pietro Allotta


Sulla Storia di Belmonte è d'obbligo il ricordo del Maestro Pietro Allotta, di cui la banda ha preso il nome.
Pietro Allotta, nacque a Belmonte Mezzagno il 21.08.1892, dopo aver trascorso parecchi anni nell’ambito delle bande militari palermitane, venne infatti nominato sottufficiale, nel 1939 decise di dirigere la Banda Musicale di Belmonte.
La sua opera fu instancabile; la sua anima, ricca di espressione musicale, in breve tempo, fece parlare alla nostra banda un nuovo linguaggio, più chiaro, più corretto e più elegante.
Un fatto da rilevare, è l’orgoglio dei belmontesi di quel periodo, infatti, i componenti erano tutti belmontesi, ed il loro numero giunse a 50 elementi.
Anche l’archivio di brani, fino ad allora molto povero, fu notevolmente arricchito dal maestro Allotta, che portò insomma, un soffio di giovinezza nella vecchia banda. Non poche volte, lo si vide, malato e anche in maniera grave, dirigere in piazza con nelle espressioni del volto, il pallore della morte prossima misto ad un’estasi musicale.
Morì il 01.12.1956 e fu un giorno di particolare emozione per tutti i belmontesi.

Immacolata Concezione


Il momento culminante della religiosità belmontese, è senza orma di dubbio l'Incontro di Pasqua. In questa sede approfondiremo le origini della statua dell'Immacolata utilizzata per tale evento.
La statua è stata comprata dalla confraternita dell'Immacolata negli anni '30; si interessarono dell'acquisto: Damiano Traina (mio bisnonno), Nino Santangelo e Totò Santangelo. Questi intrepidi si recarono - pensò col treno - a Lecce, dove la statua venne comperata; trasportarono il manichino in un grande scatolone che venne aperto soltanto dopo l'arrivo a Belmonte. Qui. con l'aiuto degli altri confrati, si montò il tutto (tipo IKEA).
Rimaneva il problema del manto, di ciò si occuparono il fratello e la sorella del mio avo (per la cronaca Salvatore e Gaetana Traina) che da qualche tempo vivevano a Philadelphia. Costoro inviarono, direttamente dalla Pennsylvania, il tessuto per realizzare il manto, e le decorazioni per scrivere W. M. in esso. Ebbene, incredibilmente, le decorazioni di oggi sono ancora quelle originali degli anni '30.
Tornando al manto, per i primi incontri si usò il tessuto quasi per com'era, ovvero, quadrato e un po' corto. Successivamente venne modificato, finché si è potuto. Da allora si sono susseguiti parecchi manti tutti, tranne quello attualmente in uso, realizzati da mia nonna.

Mons. Francesco Pizzo


Parlando della Storia di Belmonte, non si può non citare mons. Francesco Pizzo.
Mons. Francesco Pizzo nacque a Belmonte Mezzagno il 16 1 1914 in una famiglia di fervente fede cattolica. Fin da ragazzo il suo animo era diviso tra l’amore per Cristo e quello per la letteratura, vocazioni che porterà a braccetto tutta la vita, e che vivrà con infinita passione.
Laureatosi in Lettere Classiche, viene ordinato sacerdote il 30 7 1944 dal Card. Luigi Lavitrano. Da subito divenne assistente spirituale dell’Azione Cattolica di Belmonte, ma questo impegno, che lui viveva con totale abnegazione, non gli impedì di diventare insegnante di Lettere Latine- Greche e Storia al Seminario di Palermo. I suoi allievi, ancora oggi, ricordano le sue appassionate e commoventi letture dei “Promessi Sposi”.
Nel 1958 divenne Parroco di Belmonte, in quel periodo l’Azione Cattolica belmontese visse il momento migliore, diventando fucina di uomini che successivamente si impegneranno sul campo socio-politico; sicuramente grazie al suo input. Tengo a ricordare che durante il suo Parrocato è stata rifatta la pavimentazione della Chiesa, in marmi bianchi di Carrara; e sono stati posti i 14 quadri della Via Crucis.
Nel 1963 lascia la guida della Parrocchia continuando a rimanere vicino alla comunità belmontese.
Nel 1965 divenne Direttore del Centro Diocesano Vocazioni.
Dal 1980 fino al suo pensionamento, è Canonico della Cattedrale di Palermo e Vicario del Card. Salvatore Pappalardo.
Morirà nel 2002 lasciando un indelebile ricordo di sé nel cuore dei belmontesi.

Belmonte cinematografica 

Belmonte Mezzagno è stata per ben due volte set cinematografico. E' accaduto per le riprese dei film Gelosia e Mafioso.

Gelosia è un film del 1953 prodotto da Excelsa film è distribuito da Medusa per la regia di Pietro Germi, con Erno Crisa e Marisa Belli; ispirato al romanzo del 1901 “Il marchese di Roccaverdina” di Luigi Capuana.
La storia è ambientata nell’ancora feudale Sicilia di fine ‘800: Antonio il marchese di Roccaverdina, andando quasi contronatura per i canoni dell’epoca, si innamora della giovane contadina Agrippina Solmo; non potendo sposarla, perché per l’epoca era impensabile che un marchese sposasse una sua contadina, l’accoglie nella sua dimora con la scusa di assumerla come cameriera ma in realtà fin da subito la sua Agrippina diventa per volontà del marchese la padrona di quella casa.
Per non dare scandalo agli occhi dei paesani, i quali già cominciavano a mormorare, escogita un piano: dare in sposa Agrippina al fedele fattore Rocco Criscione con l’obbligo che il matrimonio sia soltanto d’appartenenza e non d’amore, l’amore di Agrippina deve essere riversato soltanto verso di lui; i due accettano e si apprestano a sposarsi. Il marchese il giorno del matrimonio segue i due nell’ombra. Nel momento del sì, nota negli occhi di Rocco il lampo dell’amore; sentitosi tradito, nella strada che conduce in paese spara a Rocco uccidendolo. Tale delitto scatena una serie di eventi che porteranno il marchese alla follia…
Il film è stato girato interamente nel territorio di Belmonte Mezzagno e Bagheria. Le strade
di Belmonte presenti nelle riprese sono state: via Vallone Ponte; via Sancipirello; via Don Cesare e piazza Garibaldi. La località di campagna interessata è stata la "placa".
Pochi i protagonisti belmontesi, tra di loro, protagonista di una scena chiave – il passaggio sotto la finestra del marchese col carretto – è stato Totò Spera, ragazzo belmontese che morirà di lì a poco all’età di 22 anni.





Mafioso è un film del 1962 prodotto da Dino de Laurentis per la regia di Alberto Lattuada con protagonista Alberto Sordi.
Il lungometraggio è girato per un ampio tratto a Belmonte Mezzagno con brevi scene a Bagheria all’interno di villa Palagonia e una scena sotto il castello di Misilmeri. Il film comprende delle scene girate a Manhattan, New york.
Molto semplice la trama: Antonio Badalamenti è un caporeparto di una fabbrica di Milano; è un superiore ligio al dovere e molto rigoroso con gli operai, per questo è molto apprezzato dai dirigenti aziendali.
Tornato, dopo tanti anni, a trascorrere le ferie estive nel suo paese siciliano d’origine: Calamo – nome del paese frutto della fantasia del regista, che assume le sembianze di Belmonte Mezzagno -; presenta la moglie Marta, donna un po’ troppo emancipata per i canoni della Sicilia dell’epoca, ai genitori che per questo la guardano con sospetto.
A Calamo rivede tutti gli amici di gioventù, tra cui il boss del paese Don Vincenzo – interpretato da Ugo Attanasio – a cui consegna un pacco che gli era stato dato a Milano da amici italo-americani.
L’incontro con Don Vincenzo stravolgerà la permanenza in Sicilia di Antonio, infatti lo incarica – quasi a sua insaputa – di andare a New York a compiere un atto che Antonio non avrebbe mai immaginato di dover compiere.

I luoghi belmontesi del film sono: la casa con l’immagine di Maria nella facciata, situata all’angolo tra via Sancipirello e via delle rose; corso martiri di via Fani; via Giovanni Falcone e piazza Garibaldi con l’imponente facciata della Chiesa Madre.
Tra i tanti protagonisti belmontesi, ricordiamo Paolo Cuccia che interpretava il padre di Antonio.

Per concludere, bisogna ammettere che Lattuada disegna il ritratto di una Sicilia nenti sacciu e lupara che forse non è mai esistita.




Matrimonio di una volta 


In questo capitolo parlerò di cosa è stato e come era vissuto il matrimonio nella Belmonte e più in generale nella Sicilia di una volta.

La preparazione del matrimonio cominciava, per la futura sposa, fin dalla più tenera età; infatti, le madre e le nonne di tutte le bambine siciliane cominciavano presto a preparare la "roba" (il corredo) per la piccola.

Il fidanzarsi non era semplicissimo perché le ragazze difficilmente avevano modo di frequentare ragazzi loro coetanei. Il primo passo spettava all'uomo: a lui toccava recarsi dal padre della donna di cui si era innamorato per chiedergli di potersi fidanzare con la figlia. Il padre, dopo aver valutato attentamente la "carata" (condizione sociale) dell'aspirante fidanzato, decideva se per sua figlia gli andava bene. Se il genitore era d'accordo si realizzava il fidanzamento, non prima dell'incontro tra le famiglie il cosiddetto "appuntamento". In questo incontro ci si accordava sui modi e sui tempi in cui i due dovevano frequentarsi; sempre in casa della fidanzata e per il tempo stabilito. Uscire da soli neanche a parlarne.
Fissata la data del matrimonio, i parenti della futura sposa cominciavano ad organizzarsi per
"stimare la roba". Si fissava una data nella quale il corredo veniva lavato e successivamente stirato da, oltre alla madre della fidanzata, nonne, zie, cugine e parenti vari. A tutto questo seguiva la "stima della roba", rito in qui veniva mostrato l'intero corredo della futura sposa: lenzuola, cuscini, federe, coperte, tende e tutto quello che serviva all'arredamento di una casa; nel tutto era inclusa "a vesta ri l'ottu iorna" (vestito degli otto giorni). Questa "roba" veniva sistemata in una stanza della casa dei genitori di lei, e adagiata sopra alcuni tavoli. Il tutto era arricchito dai regali che la suocera aveva donato alla nuora, ed inoltre dai doni ricevuti dal futuro sposo dai genitori di lei.
Dopo il matrimonio, gli sposini trascorrevano sette giorni chiusi in casa, all'ottavo giorno uscivano, con la sposa che indossava il relativo abito, e andavano in casa di tutti i parenti per salutarli.

La trebbiatura

Ma vediamo nel dettaglio cos'era la trebbiatura, operazione fondamentale per la panificazione.
La trebbiatura è il processo mediante il quale all’interno della spiga viene separato il gambo, la paglia, dal preziosissimo grano, ovvero il frutto.
Le spighe mietute, chiamate “regni”, venivano portate nell'aia, in dialetto siciliano “aria” (ampio spiazzo), per la loro separazione. Anticamente l'operazione si svolgeva con gli asini o i cavalli attraverso la cosiddetta "pisatina", che consisteva nel far incedere gli animali sopra le spighe per far si che con il loro calpestio riuscissero a far uscire il grano da esse; successivamente si “spaiava”, ovvero si lanciavano in aria le spighe con l'uso di lunghi bastoni in modo che, con l'aiuto di un alito di vento, il grano rimanesse per terra e la paglia volasse più in la.
A partire dal primo dopoguerra fino alla metà degli anni '70, tale lavoro si svolse con la
trebbia. Il funzionamento della medesima era abbastanza semplice: nella parte superiore si inserivano le spighe e dalle due estremità della trebbia uscivano rispettivamente il grano e la paglia. I due prodotti seguivano percorsi differenti: la paglia veniva spostata dal luogo dove cadeva e ammassata in un punto non molto lontano, li veniva inserita in grandi sacchi, chiamati "paggliuna"; e successivamente data in pasto agli animali. Il grano veniva invece insaccato e conservato per poter, tutto l’anno, preparare la farina e quindi il pane.
Per spostare la paglia venivano usati dei muli bardati con un particolare tipo di attacco, la "straula"; questa attrezzatura consentiva, con un uomo in piedi su di essa, il trascinamento della medesima (la paglia).

La panificazione 

Passiamo adesso alla panificazione, una volta vero e proprio rito.
Ottenuto il grano con la trebbiatura, lo si portava al mulino e lì reso farina che veniva portata in casa e lì conservata.
Nel giorno della panificazione, che avveniva circa una volta a settimana, le massaie all'alba si destavano, preparavano il quantitativo di farina bastante per la quantità di pane prevista, e con essa si avviavano dal fornaio.
Giunti lì, il fornaio pesava la farina e, in base al peso, assegnava ad ognuno la dose di lievito. Ricevuto il lievito, la massaia impastava la propria farina e preparava i panetti che venivano riposti in appositi tavoli, per farlo "rormiri", ovvero attendere che fosse completata la fase di lievitazione. Giunto a lievitazione, ogni massaia metteva nei panetti, prima che venissero infornati, un segno per successivamente identificarlo: chi una fava, chi un legnetto, chi altro.
Sfornato il pane, ognuna delle donne rintracciava il suo pane, lo metteva nelle "coffe" - ampie ceste - e lo portava a casa.
Anche, ma non solo per questo, grazie al lungo lavoro che serviva per prepararlo, il pane assumeva un valore sacro: non se ne buttava neanche una mollica, e se ne cadeva un po' per terra lo si baciava e lo si mangiava lo stesso; e se qualche bimbo non voleva mangiarlo, le nonne lo rimproveravano dicendo: "mancia ca nno pani c'è u Signuri!"

Santa Croce

Ogni anno il 3 maggio, si ripete la tradizione della salita alla Santa Croce (Pizzo Belmonte). La tradizione di posizionare una croce nella montagna più alta è comune a molti comuni della Sicilia, penso a Marineo, a Piana, ma è presente anche in tantissimi altri comuni dell'isola.
Andando su Belmonte, credo che l'usanza di salire il 3 maggio su Pizzo Belmonte risalga agli anni intorno al 1915, quando sono state posizionate le cappelle della via crucis. Perchè il 3 maggio: perché in quella data, come il 14 settembre, la Chiesa commemora da sempre la Santa Croce,
Per approfondire su questa importante tradizione belmontese, racconterò l'origine dell'attuale Croce presente in vetta.
Nell'estate del 1973, Gianni Casella, compianto belmontese per tutta la vita vicino alla parrocchia, grazie ad una colletta, riuscì a far costruire da un fabbro belmontese, una croce di circa 140 chili per sostituire quella che già si trovava su Pizzo Belmonte, piccola e quasi invisibile dal paese. Terminata la sua costruzione, nacque un grave problema: come portarla in cima?
Gianni, da uomo assai concreto quale era, trovò l'unica soluzione possibile: mio padre. Una mattina andò a trovarlo esponendo il problema. Mio padre dopo aver un po' riflettuto trovò il rimedio. Per il giorno stabilito organizzò una piccolo team di quattro prestanti giovani belmontesi: oltre a lui; il cognato Francesco Vaglica; l'amico di sempre Gaetano Di Liberto e Vincenzo Romeo. Con loro caricò la Croce sul 616 grigio (il suo camion), li fece salire sul cassone, Gianni si mise in cabina con lui e partirono. Presero per valle funda, passarono contrada San Salvatore e si diressero nel punto più vicino alla vetta distante circa un chilometro. Giunti lì, i giovani e forti belmontesi, presero la pesante Croce in spalla e via a piedi!
Capirete che percorrere un chilometro in verticale tra le rocce di Pizzo Belmonte con 140 chili di croce sulle spalle è un tantino complicato; ma il gruppo di temerari riuscì nell'intento. Arrivati in vetta, conficcarono la Croce nel fossetto che un altro volontario, l'omonimo di mio padre nonché cugino Salvatore Spera, il giorno prima aveva scavato col martelletto.
Quella sera, Gianni, per dar gioia ai belmontesi, fece illuminare la Croce che per tutta la notte si poté mirare dal paese.



Commenti

  1. bravissimo, mi ha fatto rivivere ricordi dei miei avi e miei....Belmonte terra dei miei avi materni....grazie.Francesca.

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  2. Stefano, forse oggi saresti l'unico che potrebbe rispondere a questa domanda: qual è l'anno di fondazione della scuola pubblica a Belmonte? Questa tua storia di Belmonte, che ho appena riletto, è la più completa in assoluto. A noi belmontesi manchi tantissimo

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