Rivolte d'amore

Questa pagina propone il testo integrale, per capitoli, del mio racconto "Rivolte d'amore": storia d'amore che si snoda dai moti borbonici del 1848-49 alla rivolta del 7 e mezzo del 1866.

Parte prima 
Capitolo 1


Nei primi giorni del 1848, l’odio accumulato dai siciliani nei confronti della dinastia borbonica raggiunse l’apice: tutto ebbe inizio l’8 dicembre 1816, quando Ferdinando IV tornato a Napoli, dopo il suo esilio forzato a Palermo a causa dell’occupazione di Napoli da parte dei francesi di Murat, revocò la costituzione che aveva concesso nel 1812, allora spinto dal capitano inglese Lord William Bentick e da alcuni capi del partito riformista siciliano primo fra tutti il Giuseppe Emanuele IV Ventimiglia principe di Belmonte e lo zio Carlo Cottone principe di Castelnuovo. Ciò avvenne perché sentendosi ormai al sicuro istituì il Regno delle Due Sicilie assumendo il nome di Ferdinando I e spazzando via ogni sogno di un ritorno ad un Regno di Sicilia indipendente, così come auspicato dalla maggior parte del popolo siciliano. Tutto ciò portò, nel 1820, ad una serie di insurrezioni, rivolte sedate col sangue.

Il 12 gennaio 1848 il tumulto divenne rivoluzione, al grido di Siciliani alle armi, Rosolino Pilo e Giuseppe La Masa si posero alla testa degli insorti. Stavolta però la rivolta portò i risultati sperati, infatti, i rivoltosi riuscirono a scacciare i Borbone costringendoli a riparare nella cittadella fortificata di Messina.

Il 23 gennaio venne dichiarata decaduta la monarchia borbonica, rispolverando la Costituzione del 1812, il 25 marzo fu proclamato il Regno di Sicilia con a capo Ruggero Settimo.

Purtroppo, la libertà durò poco, all’inizio del ’49 Ferdinando II – nipote di Nasone – preparò la sanguinosa riconquista inviando 16.000 uomini affidando il loro comando al generale Filangeri. Già il 5 maggio l’esercito fu a Bagheria, pronto all’attacco definitivo su Palermo. Prima però decise di chiudere un conto in sospeso con Belmonte Mezzagno, paese capofila dell’odio borbonico…

 Sté, alzati e prendi Matteo! Dobbiamo andare!” esclamò la madre. “Titta, tu prendi Rosa!”

Già da qualche giorno si temeva l’arrivo dell’esercito, adesso che si trovava alle porte del paese non si poteva più aspettare bisognava fuggire nelle montagne. I paesani, intuendo che l’esercito veniva con cattivi intenti, già avevano pianificato la fuga. Tutti furono d’accordo, tranne un gruppo di facinorosi guidati da Marcello Pizzuto, convinti di poter contrastare gli uomini di Filangeri. Avevano cercato di convincerli, ma non vollero sentire ragione. Quella mattina, mentre tutta la popolazione belmontese fuggiva: chi verso il Bosco, chi verso Montagnoli, chi verso Santa Caterina, chi verso Billimunti; loro rimasero nei dintorni del paese, convinti della loro superiorità bellica.

 Stefano anche se non aveva compreso bene cosa stesse succedendo, prese Matteo in braccio e segui la madre e le due sorelle maggiori. Giunsero in strada che ancora era buio presero una fiaccola e seguirono gli altri. Papà Nino era alla testa del gruppo, lui aveva pensato alla fuga come unica via di scampo, e adesso si sentiva responsabile dell’incolumità dei suoi paesani.

Seguendo Nino, il gruppo si avvio verso Valle Funda. A Meta strada, svoltò e cominciò a salire verso il Bosco. Era un popolo assai variopinto: Gino con le pecore davanti andava fischiando ai cani per tenerle unite; zi Luigi con l’asino che non voleva sentirne di salire, continuava ad imprecare; a zia Betta che era già giunta al terzo rosario imponeva la preghiera alle donne che la seguivano fedeli. A Stefano e Titta, che non sapevano il dramma che vi era dietro quella fuga, sembrava soltanto una mattinata più divertente delle altre.

Giunti in cima, mentre i fuggitivi cominciavano a scendere percorrendo la trazzera per Piano Casale, meta del loro viaggio; alcuni giovani uomini rimasero in vetta per controllare dall’alto i movimenti dell’esercito, sicuri che di lì a poco sarebbe arrivato in paese.

Arrivati alla meta che albeggiava, i paesani poterono far riposare le membra, stanche delle tre ore di marcia.

In paese rimasero soltanto il parroco don Pietro e padre Enrico il cappellano della chiesa Miseremini. La loro attesa non fu lunga, nel tardo pomeriggio cominciarono a sentire il passo svelto dei cavalli delle milizie borboniche. Mostrando il coraggio che non aveva, Don Pietro, dopo aver convinto padre Enrico a seguirlo, uscì dalla chiesa e scese in piazza. In pochi minuti tutto l’esercito fu davanti a loro. Vedendo i ministri il generale scese da cavallo e si avvicinò a loro, Don Pietro atteggiandosi sicuro di sè fu il primo a parlare: “Vostra signoria, vengo a portarle la vicinanza mia e di tutta la cittadinanza belmontese! Siamo vicini con la preghiera a lei, al suo esercito e al nostro re Ferdinando, che Dio non smetta di benedirlo.”

Io sono riconoscente verso tutti voi, e sono sicuro della vostra buona fede” disse Filangeri, “ma se la popolazione belmontese ci è così vicina, come mai il paese è deserto? Dove sono i belmontesi?”

Ah l’avevo dimenticato, sono andati tutti in pellegrinaggio a Tagliavia per pregare la Madonna del Rosario affinché nel nostro regno arrivi la pace e il nostro santo re Ferdinando torni al suo trono, così come voluto da Dio.”

Va bene reverendo, farò finta di crederla. Questa notte io con i miei uomini rimarremo qui, ci accamperemo alle porte del paese; se andrà tutto bene andremo via viceversa…” La pausa conclusiva lasciava trasparire le intenzioni poco amichevoli del Generale.

Andrà sicuramente tutto bene, Dio è con voi. Anzi, affinché egli vegli sempre su di voi, voglio benedirvi con il S.S. Sacramento” propose don Pietro.

Grazie reverendo, accetteremo con riconoscenza il suo gesto.”

Sentito questo, padre Enrico si precipitò in chiesa a prendere l’Ostensorio con la Santa Ostia.

Benedetto l’esercito, i due ministri si ritirarono convinti di aver scongiurato ogni pericolo. Ma le cose sarebbero andate diversamente…

Voi rimarrete qui, al mio segnale farete fuoco. Noi scenderemo aggirando l’accampamento ed entreremo in azione dopo che voi sparerete, cercheremo di coglierli di sorpresa. Ci riusciremo! Il tempo dei Borbone è finito.” Cosi Marcello, chiamato Serpe preparò gli uomini all’azione. Lui stesso si era imposto tale nome perché si vantava di essere stato la serpe in seno di Filangeri, infatti da ufficiale borbonico era diventato capo dei rivoltosi.

Trenta uomini cominciarono a scendere il fianco della montagna, approfittando dell’oscurità – era infatti una notte senza luna – aggirarono l’accampamento e si stesero a terra armi in pugno.

All’improvviso si senti lo squittio di una civetta, era Serpe a fare quel verso: il segnale convenuto.

Gli uomini rimasti sul monte cominciarono una pioggia di schioppettate, i soldati sentendo gli spari ricambiarono il fuoco nascondendosi dietro i carri, mostrando, come previsto da Serpe, le spalle al suo gruppo di fuoco. Una pioggia di fuoco si riversò sulle spalle dei soldati.

Serpe maledetto!” urlò Filangeri intuendo chi avesse pianificato quell’imboscata.

Continuando a sparare, il due gruppi dei rivoltosi cominciarono lentamente ad avanzare; fin quando non si udì un galoppo di cavalli provenire dal fondo valle. In pochi istanti sarebbero stati su di loro. Serpe, avendo capito il giogo del generale, ordinò la fuga.

Ragazzi è finita, fuga! fuga!”

Gli uomini all’istante cominciarono a fuggire verso la montagna, ma per molti di loro il segnale di resa arrivò troppo tardi. Già la cavalleria era sopra di loro.

Il generale sapendo di trovarsi nel paese di Serpe, da qualche anno sua spina nel fianco, e conoscendo le sue abilità in battaglia, preparò il suo piano: col favore delle tenebre, ormai quasi giunte, posizionò la cavalleria in una gola a valle, dando ordine al comandante dello squadrone di vegliare tutta la notte perché era sicuro che sarebbe arrivata un’azione di Serpe. Alle prime schioppettate lo squadrone doveva risalire il fianco della montagna e, arrivato all’accampamento bloccare i rivoltosi.

Gli uomini che riuscirono a non venire catturati fuggirono sui monti intorno al paese, sicuri che Filangeri avrebbe trovato pace solo dopo che la forca sarebbe passata su di loro. Il generale li cerco tutta la notte non riuscendo a trovarli, ma aveva già in mente un altro modo per vendicare gli uomini morti.

Terminata la caccia, Filangeri pieno di rancore diede gli ordini per attuare il suo infido piano.

Bruciate tutto, ogni casa, ogni stalla, niente rimanga intatto soltanto ceneri fumanti.”

I due ministri di Dio, rifugiatosi a pregare nella chiesa Miseremini, fermatosi gli spari pensarono che il peggio fosse passato. Furono smentiti dalle fiamme che cominciavano ad inghiottire il piccolo borgo. Usciti fuori e capite le dimensioni della tragedia che davanti ai loro occhi si stava consumando, corsero dal generale implorando pietà.

Filangeri con una battuta imbevuta di un sorriso perfido liquido i due preti: “Non preoccupatevi reverendi padri! la casa di Dio non sarà violata. Ai suoi paesani lasceremo il luogo dove piangere e redimersi dalle loro colpe”.

Capitolo 2

I ragazzi rimasti in cima al Bosco sentirono le schioppettate provenienti da Montagnoli e capirono che si trattava di un’azione di Serpe e la sua banda, ma in cuor loro speravano che si concludesse con una disfatta dei borbonici, purtroppo quella stessa notte scoprirono che le loro speranze erano state vane…

Qualche ora dopo, il fuoco appiccato dagli uomini di Filangeri cominciò, sotto i loro occhi, a distruggere il paese. Assistendo all’immane tragedia non riuscivano a proferire parola, la rabbia rimase dentro di loro quasi soffocandoli. Intanto le donne giù a Piano Casale vedendo la colonna di fumo salire da dietro la montagna, intuendo ciò che era accaduto, cominciarono a piangere battendosi il petto. Nino, visto il fumo e sentite le grida disperate, prese una giumenta e la lancio al galoppo verso la cima del monte.

Stefano, che si era assopito, sentendo le grida corse impaurito verso sua madre: “Mamma che succede?” gli chiese tremante.

Cose tinte, cose tinte Sté.”

In quell’istante il piccolo vide suo padre partire al galoppo.

Dove va papà?”

Vedendo che sua madre non trovava parole per rispondere, non chiese più nulla.

Nino torno dopo qualche ora, sceso da cavallo, barcollante si appoggio ad un fico. Era sconvolto: troppo dolore aveva portato quella vista.

Dopo qualche minuto, si issò su una roccia e cominciò a parlare: “Belmontesi, per noi è il tempo di versare le lacrime. I Borbone hanno bruciato il nostro paese, non abbiamo più nulla; ma non temete, ricostruiremo tutto e con l’aiuto di Dio verrà il tempo del nostro riscatto, quel giorno l’oppressore borbonico lascerà questa terra e finalmente la Sicilia sarà libera!” 

Nel pomeriggio due ragazzi scesero dalla vetta per prendere qualche provvista e raccontare quanto era accaduto: gli spari a Montagnoli, il bruciare del borgo, l’esercito vagante tra le ceneri… Il suo racconto si interrompeva spesso a causa dei continui pianti sgorganti dal suo volto.

Quando potremo tornare in paese?” chiese una delle donne.

L’esercito si è accampato alla Pianotta e ancora sembra non aver minima intenzione di andarsene.” Detto questo salì sulla cavalcatura, che gli uomini avevano nel frattempo caricato di provviste, e andò via.

Trascorsero altri cinque giorni prima che i belmontesi poterono riprendere la strada di casa.

Scendendo verso valle, l’angoscia cominciò a penetrare nell’animo dei paesani. Esplose arrivati alle porte del paese, era davvero tutto finito, la distruzione totale li accolse. Finalmente Stefano prese coscienza di ciò che era avvenuto: non c’era più nulla del suo mondo. Sentendosi sconvolto si nascose dietro un masso a piangere dolorosamente.

Giunti in quel che rimaneva della piazza, i belmontesi trovarono don Pietro che li aspettava. Vedendolo, zio Franco – che era il sacrestano – lo abbraccio piangente.

Non temere figlio, non temere” continuava a ripetergli.

 I Cascio avevano avuto sempre grande vanto dall’aver ricevuto nel 1752 le proprie terre direttamente dalle mani di Giuseppe Emanuele III Ventimiglia principe di Belmonte. Da subito gli antenati di Stefano avevano messo le terre a coltura, tuttavia, durante la carestia del 1793 che a causa di una protratta siccità aveva compromesso la produzione di grano; nonno Titta decise che avrebbe smesso di coltivare le terre e sarebbe passato alla pastorizia.  

Andò dai parenti di Misilmeri, paese d’origine della famiglia, e con la mediazione di zi Tino aveva comprato venti pecore. Da allora fino alla sua morte, avvenuta nel 1830, si era occupato del gregge portandolo a ottanta capi. Dopo la sua dipartita, le pecore passarono nelle disponibilità dei quattro figli maschi che si divisero i capi tra loro.

Già da due anni il piccolo Stefano si era messo alla sequela di suo padre nella custodia del piccolo gregge, che alla famiglia assicurava cibo per tutto l’anno.

Fortunatamente in quel maggio 1849 le pecore di Nino erano insieme a quelle del fratello Giovanni nelle terre della Rossella, per questo a loro non toccò il tragico destino dei capi che stazionavano nei feudi attorno al paese: bruciate vive nel rogo dei campi in cui pascolavano.

 “Padre perché hanno bruciato tutto?” chiese un giorno Stefano.

Erano trascorsi sei mesi da quella bruttissima pagina della storia della comunità belmontese. Da allora Nino, come tutti gli uomini del paese, si era impegnato nella ricostruzione del borgo, trascurando i suoi interessi: le sue pecore erano rimaste nel gregge di Giovanni. Quella mattina insieme a suo figlio si era recato a fare legna per le impalcature delle case da ricostruire, adesso che il sole era al tramonto avevano caricato il mulo stavano tornando in paese.

Perché… perché… lo so io perché!” rispose Nino, innervosito dal pensare a quella tragedia, “perché ci odiano, sti Borbone ci odiano… Nonostante questo non voglio andarsene, anche se non gli interessa niente di noi… niente di niente…”

 “Se l’hanno bruciato loro perché non ci aiutano a ricostruirlo?” rincalzo Stefano.

Aiutarci… chi quelli… Già è una fortuna che non vogliono tasse!”

 Un anno dopo, i belmontesi scesero in piazza armati di bastoni, tridenti, vanghe e pale…

Noi tasse a questi no ne paghiamo più!” gridava la gente inferocita, dirigendosi verso la casa comunale.

Sentendo le urla, il Decurione aprì leggermente la porta al primo piano che dava sulla strada, e vide arrivare quasi tutti i duemila abitanti del paese.

Da qualche giorno girava la voce che Ferdinando batteva di nuovo cassa, rivoleva i tributi sospesi dopo il Real incendio del paese.

Non paghiamo… non paghiamo…” la folla continuava ad urlare. Alcuni ragazzi cominciarono a tirare sassi verso la casa comunale diretti al primo piano, dove si sapeva esserci il Decurione.

Fattosi coraggio si affacciò: “Concittadini calmatevi! Sappiate che sono il primo dei belmontesi a capire l’ingiustizia di pagare le tasse a coloro che hanno distrutto il paese, ci hanno lasciato in ginocchio con Belmonte da ricostruire… e hanno il coraggio di chiedere tributi ad un popolo alla fame. Ma purtroppo non abbiamo scelta, dobbiamo pagare… ma non temete, la nostra liberazione è vicina”.

I belmontesi, convinti dal loro primo cittadino, demorsero e tornarono alle loro case.  

Capitolo 3

Quella sera del luglio 1859, Nino rientrò con suo cugino Pino. In casa erano rimasti in sei, Franca e Concetta da qualche hanno si erano sposate con due fratelli proprietari di due salme di terra a Mazzarca.

Sté, domani andrai a Bagheria con zi Pino a raccogliere pesche!” esclamò Nino.

Padre, ma domani dobbiamo portare le pecore alla Cannavata!”

Tu non ti preoccupare, mi porterò Titta!”

Come dite voi sia fatto padre!”

Nino da qualche tempo aveva pensato di mandare Stefano a giornata. Troppo sacrificante e misera la vita del pastore.

Alle quattro del mattino già Stefano era in groppa alla giumenta dietro gli altri operai, la carovana era aperta dal mezzadro Pino.

Dopo una cavalcata di circa due ore, giunsero al feudo Moncheda: dieci salme di peschi e nespoli con, nella parte bassa, un imponente villa del settecento.

La raccolta cominciò dalla parte del pescheto antistante la villa, ai lati della stradina d’ingresso. Intorno alle otto, lo stalliere preparò il cocchio. Quando la carrozza fu pronta ai piedi della scalinata, uscirono le dame: Elisabetta di Mondragone, moglie del conte Moncheda; e la figlia diciassettenne Rebecca. Sentito il vocio, Stefano alzò gli occhi verso di loro e vedendola rimase inebriato dalla sua bellezza: capelli castani chiari con dei riccioli alle estremità, occhi neri su un volto roseo e luminoso, ed una formosa corporatura. Tutto ciò rendeva la sua discesa lungo la scalinata di un’eleganza e una magnificenza sconosciuta al ragazzo. Era arrivata alla carrozza quando…

Ehi! Che guardi?” chiese zi Pino a Stefano, corredando la domanda con un bel colpo di virga alla schiena.

Ahi!... Niente sto guardando...”

Meglio così… non guardare là che quella non è roba per te… Torna a lavorare!”

Durante la notte nel casotto degli operai – avrebbe dormito lì con gli altri ragazzi tutto il tempo della raccolta – Stefano non riuscì a chiudere occhio: la vedeva e rivedeva mentre scendeva la scalinata. Nella sua giovane età, non capiva fino in fondo cosa fosse quella folle voglia di rivederla, quel vuoto dentro che nasceva al suo pensiero. Capiva soltanto che era qualcosa di grande, meraviglioso, unico.

Dentro di lui cominciava a risuonare un canto d’amore: “Mi votu e mi rivotu suspirannu, passu l’interi notti senza sonnu… e li binnizzi toi vaiu cuntiplannu…”

Intorno al mezzodì, la sua cesta si ruppe: “Zi Pì, si è rotta la cesta!”

Vai a prendertene una nel casotto!”

Stefano scese a gran velocità la collina, si trovavano infatti nella parte alta del feudo. Giunto ormai vicino al magazzino, senti una finestra al secondo piano che pian piano si apriva: alzò gli occhi e vide Rebecca affacciata, ella lo gelò con il suo incantevole sguardo.

Una voce da dentro interruppe l’idillio: “Rebecca dove sei?”

Qui mamma arrivo!”

La ragazza fece cenno al giovane di non parlare e di tornare dopo, chiuse le imposte e scomparve. Il ragazzo, con il cuore trepidante, prese la cesta e si avvio verso gli altri. Risalendo la collina, pensò che qualsiasi cosa fosse quel sentimento verso la giovane, era sicuramente ricambiato.

Finita la giornata di duro lavoro, mentre ritornavano davanti al casotto per desinare, Stefano sentì come un fruscio: “Pss… pss…”

Sentito il cenno, il giovane segui la provenienza della voce che nel frattempo bisbigliò nuovamente: “Qui… qui…”

Camminando verso quella voce, passando per una piccola boscaglia, giunse in una zona per lui sconosciuta del feudo: una piccola fontana zampillava fra delle piccole statue neoclassiche in marmo bianco che la circondavano. Stefano, estasiato da quella vista, per un attimo dimenticò la voce che lì l’aveva attirato.

Ei qui…” riprese la misteriosa voce.

Il giovane torno in sé e per poco non inciampò in una radice, fattosi avanti la vide.

Ei! Vedi per non cadere per terra però…” esclamò lei sorridendo.

Lui incredulo la guardò stranito. Rebecca intuito il suo stupore, si blocco improvvisamente, non riusciva più a proseguire.

Quella mattina aveva deciso che avrebbe avvicinato quel giovane che da subito l’aveva colpita, ancora pensava sorridendo alla vergata che Stefano aveva beccato per guardarla mentre saliva in carrozza. Ancora non riusciva a capire perché quella mattina vedendolo si era istintivamente affacciata. Adesso vedendolo lì davanti a lei, capì che si era innamorata di quel giovane sconosciuto. L’istinto di dama che sempre aveva avuto gli suggerì di proporre al ragazzo un baciamano. Stefano si inginocchiò come davanti ad una visione mistica, prese la mano candida di Rebecca e fece per baciarla; ma all’improvviso si udì una voce: “Rebecca dove sei?” Era Nunziatina, la dama di compagnia della giovane che la chiamava.

Nunzia arrivò!” rispose la ragazza, togliendo la mano da quella dell’amato, dicendo a lui: “Scusa devo andare…”

Aspetta, non andare…”

Mi spiace devo proprio andare… Tieni questo e pensami…” disse lei, dando al giovane il fazzoletto che teneva nell’altra mano e andando via da lì.

Stefano rimase qualche minuto in estasi da quell’incontro, dopo poco si riprese. Il cuore era in frantumi da quella cascata di emozioni, nella mano stringeva il fazzoletto di lei. Aprendolo lesse le iniziali ricamate di lei: R. M.

Sté, stasera no ne hai fame?” gridò zi Pino.

Sentito questo il ragazzo corse verso il rancio.

Nunziatina era una donna sulla quarantina, alta, snella e dai modi aggraziati. Nonostante la sua davvero bella presenza e la grande eleganza e grazia che la contraddistingueva, da qualche anno aveva deciso, in seguito a parecchie delusioni amorose, di lasciar perdere con gli uomini per dedicarsi pienamente al compito assegnatoci dai conti Moncheda: dedicarsi alla cura e alla compagnia di Rebecca. Nunzia aveva accettato con gioia quello che ormai considerava come unico scopo della sua vita. Voleva un bene infinito alla giovane e avrebbe fatto di tutto per proteggerla.

Il conte Bartolomeo Moncheda aveva scelto lei perché era figlia di donna Concetta, serva stimata da tutta la famiglia. Lei era entrata nella servitù all’inizio dell’Ottocento come lavapiatti, subito, però, mamma Grazia – madre del conte – aveva notato le sue doti di predominanza nei rapporti con gli altri servi. Lentamente aveva cominciato ad assegnargli via, via compiti di sempre più alta responsabilità; tutti svolti magnificamente da Concetta. Queste sue capacità, in pochi anni la portarono a rappresentare mamma Grazia in tutti i suoi compiti: riusciva a capire la volontà della contessa senza bisogno di chiedere nulla. Vedendo questo anche il conte cominciò a fidarsi di lei. Donna Concetta divenne padrona in casa Moncheda: si occupava lei di tutta la servitù, ma non solo, aveva da fare anche con i contadini che faceva filare a bacchetta; per qualsiasi cosa tutti sapevano che dovevano rivolgersi a donna Concetta.

Quando Concetta, dopo aver servito i conti fino alla loro morte, morì anch’essa fu un grave lutto per tutta la famiglia.

Stefano era totalmente perso d’amor per Rebecca, ma la giovane per quattro giorni non si fece più vedere. Il ragazzo da qualsiasi punto della tenuta si trovasse guardava sempre la finestra da dove lei quel giorno si era affacciata. Ma niente, nessun segno. Stava impazzendo, si chiedeva continuamente se avesse osato troppo durante quell’incontro, ma non trovava alcuna pecca. Era esasperato: perché mi ha avvicinato? continuava a ripetersi, soltanto per farmi impazzire?

All’arrivo di Rebecca, Nunzia le chiese: “Dov’eri? Da un po’ ti cercavo”.

Ero andata a fare una passeggiata.”

Da sola?”

Sì, da sola… E con chi sarei potuta andare?”

Nunziatina che aveva visto tutto: “Con nessuno… con nessuno…” concluse.

Quella sera Rebecca cominciò a riflettere su parecchie cose, prima fra tutte quella più grave; la differenza di ceto con Stefano. Suo padre mai avrebbe acconsentito a quell’amore verso un contadino sconosciuto. Ma lei l’amava, e non si sarebbe fermata davanti a niente; al costo di fare la fine di zio Riccardo: diseredato da suo padre…

Zio Riccardo, fratello di suo nonno, si era innamorato di una serva e, resistendo alle minacce di suo padre: l’avrebbe diseredato nominando il fratello minore legato del fedecommesso, sposò Adelina. Nonostante l’odio di suo padre pesasse su di lui, sentito della sua morte corse al palazzo del Cassaro a dare un ultimo saluto al corpo di suo padre. Da allora non si fece più vedere, si seppe soltanto che visse una vita felice a Napoli senza i lussi del suo ceto ma con al fianco la sua Adelina e i quattro frutti del loro amore.

L’indomani Rebecca si alzo decisa a parlare con sua madre, ma non vi riuscì perché la contessa si destò presto per preparare i bagagli; e al risveglio della figlia già non c’era più. Infatti, ma già Rebecca ne era a conoscenza, anche se era passato nel dimenticatoio, quel giorno sua madre doveva recarsi a San Lorenzo ai colli dall’ottantenne zia Maddalena che da qualche tempo aveva cominciato a soffrire d’asma, per lì rimanere qualche giorno.

Uscita dalla sua stanza, rimase male non trovandola. Però, mentre faceva colazione, cominciò a pensare che forse l’assenza della madre non fosse proprio una tragedia, per una settimana avrebbe avuto un problema in meno per rivedere Stefano, una persona in meno che gli stava addosso era una buona consolazione.

Quel primo giorno, passò tutto tentando di rincontrare il giovane. Ma non ci fu verso, Nunziatina non gli diede possibilità di provarci; le stette tutta la giornata alle calcagna, quasi soffocandola. Sperò nell’indomani, ma niente, stessa pressione; così fu anche nei successivi due giorni. La mattina del quinto giorno, avendo capito che Nunzia aveva inteso qualcosa, decise di affrontarla.

Entrata nella stanza della sua dama, le chiese: “Nunzia, ma perché mi perseguiti? Da tre giorni non mi lasci muovere!”

Io! Veramente non mi sembra. Ti sbagli…”

Non mi sbaglio! Appena mi allontano mi sei addosso. Ti ho già detto più volte che non sono una bambina…”

Ma cosa dici?”

Io dico bene…” Mentre diceva questo, in Rebecca nacque un dubbio: “Ma mi stai addosso perché hai visto qualcosa…?”

Qualcosa no, ma qualcuno si…”

Lo sapevo, non facciamo che lo hai detto a mia madre?”

No, assolutamen…”

Dirmi cosa?” chiese la contessa, irrompendo nella stanza.

Niente mamma… sciocchezze…”

Visto qualcosa… qualcuno… cosa c’era da vedere?” ribattè la contessa.

Mamma niente… devi credermi!”

Rebecca smettila!” urlò la contessa innervosita, e rivolta a Nunzia chiese: “Dimmi cos’è successo?”

Nunzia zitta! Devo dirglielo io” esclamò Rebecca. “Mamma io, prima che tu andassi via, volevo dirtelo: tra i contadini arrivati da Belmonte c’è un giovane…”

C’è ne sono tanti… e allora?” chiese la contessa, ormai insospettita.

Uno di loro…” riprese la giovane, “si chiama Stefano, ed io…”

E tu cosa? Diamine…”

Io… mi sono innamorata di lui!”

Cosa? Tu sei pazza…”

Non sono pazza!” ribattè Rebecca alzando il tono di voce.

E invece si…” disse la contessa, ormai urlando.

Smettetela… adesso basta, smettetela di urlare!” Nunzia poteva intromettersi tra Elisabetta e la figlia grazie alla stima che negli anni si era fatta agli occhi dei conti. “Cercate di ragionare!” esclamò e rivolta ad Elisabetta continuò: “Contessa, io ho visto il giovine ed è un gran bravo ragazzo”.

E questo cosa c’entra!” disse la contessa, “può essere il più volenteroso del mondo ma chi lo dice a Bartolomeo che questa vuole fare la fine di suo zio Riccardo.”

Glielo dirai tu, mamma…”

Quello che dice Rebecca e giusto, lo direte voi al conte, e a lui che spetta di decidere.”

E va bene! faremo come dite voi…” chiuse la contessa, uscendo e sbattendo la porta.

La sera del quinto giorno, se la vide davanti mentre rientrava al casotto. Lei lo prese per mano e lo condusse nei pressi della fontana; Stefano la segui silenzioso ma col suo giovane cuore in fiamme. Giunti lì, il ragazzo fu il primo a parlare: “Perché sei scomparsa? Non ho fatto che pensarti… non capisco cosa mi sta accadendo, non ho mai desiderato la vicinanza di una persona come ho desiderato la tua…”

Anche a me è successa la stessa cosa” cominciò lei, “ma io so già cos’è, mi sono innamorata di te…”

Ed io di te, mia Rebecca. Non lasciarmi più…” continuò lui stringendole forte la mano.

Non ti lascio più di sicuro… Anzi ho parlato di te con mia madre.”

E cosa ti ha detto?” Stefano in quei giorni aveva riflettuto a lungo sulla sua condizione, sarebbe stato difficile essere accettati dai conti: lui era soltanto un contadino.

Mi ha detto che parlerà con mio padre.”

Sperò che mi accettino…”

Ti accetteranno sicuramente.” La ragazza non era affatto sicura, ma non voleva scoraggiarlo. “Ci ameremo…”

Sono sicuro di questo, mi spiace che per un po’ non potremo più vederci” riprese Stefano.

Perché?” chiese preoccupata lei.

Perché la raccolta di pesche è finita.”  

Come finita! Adesso che… ”

Domani tornerò a casa.”

E come farò senza di te? … eri l’unica mia via di fuga, seppur immaginaria, da questa gabbia dorata!”

E a me non ci pensi? Ora che sei diventata la mia ragione di vita dobbiamo separarci…”

Non preoccuparti vita mia… ci rivedremo presto.”

 Capitolo 4

19 maggio 1860

Chi si crede questo Garibaldo? Questo senza Dio… una settimana fa sbarca a Marsala, si crede a casa sua, e cinque giorni fa… quella di cinque fa non la sapete? a Salemi si proclama dittatore usurpando il nome del nostro Re, il nome di Francesco II.

Ma lo conoscete quest’eroe dei miei stivali? … sapete chi è?... Dite ai vostri figli che qualche anno fa, questi ha avuto il coraggio di spodestare il nostro sommo papa Pio IX dal suo regno santo; soltanto l’intervento del nostro compianto re Ferdinando II, che Dio l’abbia in gloria, ha potuto rimettere il santo padre nel posto che gli spettava per volontà di Dio… Ditele queste cose ai vostri figli…  È un senza Dio!”

Queste parole infuocate di padre Angelo– subentrato alla morte di don Pietro come parroco di Belmonte – nell’omelia della prima messa sconvolsero le pie donne del paese che impaurite raggiunsero le loro case. Anche mamma Giuseppa ascolto la predica di padre Angelo, nel tragitto verso casa ripensò alla discussione avuta dai loro figli la sera prima…

“… Titta, ci vieni o no?” chiese per l’ennesima Stefano al fratello.

Ma ho mia moglie, i bambini…” rispose titubante.

Meglio, sarai il loro eroe!”

Ma da dove si comincia?”

Te l’ho già detto!” riprese il fratello minore, “domani sera andremo a Misilmeri dai picciotti di La Masa, il Generale passerà da lì.”

Figli miei!” sbottò papà Nino fino ad allora taciturno, “sapete i rischi che correte? Ricordate ai tempi passati com’è finita in paese per mettersi contro i Borbone?”

Papà stavolta sarà diverso! Il giorno della riscossa è ormai giunto!”

 Giunta in casa, Giuseppa trovo l’ormai anziano marito seduto nella piccola jittena davanti casa, dal suo sguardo la moglie capì che era accaduto qualcosa: “Dov’è Stefano?” chiese preoccupata dal non vederlo.

Sono già andati…” rispose Nino, asciugandosi una lacrima.

Oh Madonna! Titta pure?”

Pure lui, ha la testa più da mulo di suo fratello!”

Non dovevano andare stasera?”

E invece hanno anticipato… accidenti a loro e a sto Generale!”

 

Dopo la vittoriosa battaglia di Calatafimi, i Mille, a cui lentamente si aggiunsero centinaia di volontari provenienti dai centri percorsi strada facendo, continuarono l’avanzata in terra di Sicilia. Gli uomini di Garibaldi quasi senza colpo ferire superarono Alcamo e Partinico, raggiungendo in pochissimi giorni Parco. Da lì, si diressero verso l’interno dirigendosi a Piana dei Greci, a Piana furono accolti da una popolazione festante che assicurò loro tutto quanto ebbero bisogno durante i due giorni di sosta nel loro paese.

Sconfitti in quel di Calatafimi, i borbonici con parte dell’esercito di stanza a Palermo si misero alla ricerca di Garibaldi e dei suoi uomini. Intuendo questo, il Generale fece arrivare loro la notizia che si sarebbe diretto a Corleone. Egli realmente si diresse verso quel borgo, ma, giunto a Malanoce deviò con la stragrande maggioranza dei suoi uomini verso Pianetto, ordinando soltanto ad un piccolo manipolo di uomini di dirigersi a Corleone per illudere i comandanti dell’esercito borbonico. A Pianetto dormirono qualche ora e alle prime luci dell’alba scivolarono sul fianco della montagna verso Piano Casale, dirigendosi verso la Mendola e da lì scesero a Misilmeri dove La Masa e i suoi picciotti li aspettavano.

“… Viva Garibaldi, viva l’Italia…” gridavano le due ali di folla che circondarono subito il Generale al suo arrivo in paese.

Arrivato in piazza scese da cavallo e andò incontro ai picciotti pronti a morire per la sua causa.

Cascio vieni salutare il Generale!” esclamò La Masa, portandolo verso Garibaldi che era di spalle, voltatosi, Stefano lo vide da vicino: era un uomo sulla sessantina in camicia rossa e pantaloni beige, al collo una lunga collana che entrava in tasca, dove probabilmente aveva l’orologio, per uscirne penzolante sul petto, i fianchi cinti da una cintura nera a cui era appesa una sciabola. L’aspetto era rassicurante pur nella sua fierezza da condottiero.

Generale, le presento uno dei nostri più valorosi picciotti: Stefano Cascio di Belmonte!” esclamo La Masa. Era davvero uno dei più valorosi giovani volontari: aveva convinto la stragrande maggioranza dei belmontesi a seguirlo nella causa antiborbonica.

E per me un onore servirla!” esordì Stefano.

Onore mio, prode giovane!” disse Garibaldi, dando al giovane una pacca sulla spalla.

Verso sera, il piccolo esercito – ormai forte di circa tremila uomini – partì alla volta di Gibilrossa da dove poteva avere un’ampia vista su Palermo, e quindi decidere meglio la strategia per la sua conquista.

L’indomani mattina per Stefano la sveglia arrivò alle 3 e mezza.

Cascio sai sparare?” gli chiese uno dei capi di quel piccolo esercito.

Stefano al sentire quella voce si rese conto di averla già sentita, anche le sembianze non gli erano totalmente estranee.

Allora… sai sparare o no?”

Sì, Signore!” Non era vero, ma tant’è.

Allora tieni!” esclamò quell’uomo, dandogli uno schioppo ed un sacchetto con le munizioni.

Serpe vieni!” gridò qualcuno.

Quello dello schioppo si giro e rispose: “Qua sono, arrivò!”

Stefano subito si rese conto: era Marcello, l’eroe che stava beffando Filangeri. Dal giorno dell’incendio di lui si erano perse le tracce; nessuno sapeva che fine avesse fatto. Il ragazzo riconobbe la voce e le sembianze perché prima dei moti l’avevo incontrato con suo padre nei campi, sempre fuggiasco.

La discesa verso Palermo fu lenta è silenziosa, man mano che scendevano – mentre il sole cominciava a sorgere sulla Conca d’Oro – vedevano sempre meglio le sagome delle navi ormeggiate nel porto: una battente bandiera inglese e le altre due borboniche. La strategia concordata era chiara: forzare l’ingresso da Porta Termini passando per il ponte Ammiraglio.

Giunti nella riva dell’Oreto, i Mille videro nell’altra sponda l’ordinato esercito borbonico che avanzava verso il ponte. All’improvviso qualcuno suonò la carica e gli uomini si lanciarono sul ponte a tamburo battente.

Voi fermi!” gridò Serpe agli uomini con gli schioppi, “tirate da qui… fuoco sul nemico… a morte i borbone…”

A quest’ordine, partì una raffica di fuoco verso il nemico. Per Stefano fu il battesimo di fuoco, mai aveva sparato; nonostante questo, il primo colpo ferì un fante borbonico ad un fianco. Sul ponte gli uomini di Garibaldi lottavano con ardore riuscendo lentamente ad avanzare.

Fuoco, fuoco!” ordinò di nuovo Serpe. A quell’ordine partì un’altra pioggia di schioppettate.

Sotto i colpi si aprì una breccia nello schieramento del nemico, lì si infilarono i nostri e in un baleno furono sull’altra sponda. I fucilieri, visto ciò, corsero sul ponte e si fermarono nel centro – la parte rialzata – e scatenarono una raffica di schioppettate che dispersero il nemico e l’obbligarono a lasciare le posizioni.

Avanziamo verso Porta Termini!” ordinò Garibaldi, che grazie ai rapporti di Pilo e La Masa aveva una perfetta mappatura mentale dell’intera Palermo. Giunti lì, lo scontro si fece più intenso. La superiorità numerica dei borbonici era evidente, però i garibaldini trovarono un alleato inaspettato: i palermitani. Infatti, vedendo gli uomini di Garibaldi in difficoltà scesero in strada armati di qualunque cosa: forconi, siede, tavoli, pietre e, via, via tutto ciò che gli veniva tra le mani andarono addosso ai borbonici.

Oh, ma cos’è questo fischio?” chiese Stefano al picciotto accanto.

Ma da dove vieni?” domandò retoricamente lui. “Bombeee… occhiooo…!” urlo mentre una delle bombe sganciate dalle navi borboniche andava a schiantarsi a poca distanza da loro. L’esplosione che segui ferì mortalmente l’ungherese Tüköry, ciò accese ancor più forte la ferocia dei garibaldini che con un’eroica ondata sfondarono la Porta ed entrarono in città.

Nonostante l’indiscriminato bombardamento della città e la superiorità numerica del nemico, i garibaldini – grazie soprattutto alle barricate costruite dagli abitanti di Palermo e ad una scadente catena di comando nell’esercito borbonico – già il 30 maggio, tre giorni dopo l’ingresso in città, concessero l’armistizio chiesto dai borbonici. Il 6 giugno l’esercito di Francesco capitolo: Palermo era conquistata!

Per il giovane esercito garibaldino fu una grande vittoria: le urla festose dei palermitani lì accompagno tutta la notte.

All’alba – aveva passato la notte nel sagrato della Chiesa del S.S. Salvatore – si insospettì vedendo una carrozza che risaliva il Cassaro: gli sembrò di averla già vista da qualche parte. Incuriosito la seguì, la vettura si fermò all’improvviso poco prima del piano della Cattedrale. Stefano, in un lampo, si nascose nella viuzza di fronte al palazzo dove il cocchio si era fermato, non togliendo lo sguardo da esso. Apertosi lo sportello della vettura, vide scendere Rebecca e stava per andarci incontro, quando dall’altro lato i conti Moncheda aprirono lo sportello; anche loro erano in carrozza. Visto questo, Stefano all’istante torno a nascondersi. Quando i tre entrarono nel palazzo il portone si chiuse alle loro spalle e la carrozza si allontanò.

Evidentemente, allo scoppio dei tumulti palermitani, i conti si erano trasferiti nella loro villa della Bagheria; per ritornare ora che era tornato tutto quasi alla normalità.

Stefano, memorizzato bene dove si trovava il palazzo, sicuro che sarebbe ritornato; torno nei ranghi dei garibaldini. 

Capitolo 5

I garibaldini, forti di altri duemila e cinquecento volontari sbarcati a Castellammare del golfo, a fine giugno, divisi in tre colonne partirono alla conquista dell’intera Sicilia. Stefano venne inquadrato nella colonna guidata dai generali Medici e Cosenz, loro destinati ad avanzare lungo la costa settentrionale. L’avanzata fu abbastanza spedita almeno fino a Milazzo, lì, il 20 luglio, soltanto dopo una cruenta battaglia i garibaldini ebbero la meglio sulle truppe borboniche presenti. La conquista dell’isola termino il 27 luglio con la capitolazione di Messina.

Stefano, come la maggior parte dei volontari siciliani, non seguì Garibaldi verso la Calabria ma si avviò a rientrare a casa.

Per Stefano fu una gioia quel viaggio di ritorno: in tutti i paesini attraversati i picciotti erano accolti come degli eroi.

Dopo dieci giorni di cammino, giunti in vista di Palermo, suo fratello e gli altri belmontesi salirono verso il paese; lui al contrario lascio la compagnia e in solitaria si avviò verso la città: lì dove aveva lasciato il suo cuore.

Arrivato davanti al palazzo, cominciò a guardare i balconi e tutte le finestre: chiuse. Il portone era sbarrato, sembrava non vi fosse nessuno. Poi, all’improvviso, una tenda si mosse e un viso si affaccio ad una finestra. Era lei, a Rebecca quando vide Stefano il cuore gli saltò in gola, non riusciva a trattenere la gioia; erano passati ormai dieci mesi, aveva cominciato a temere che non l’avrebbe più rivisto.

 

Appena il conte Moncheda seppe da sua moglie di questo Cascio, volle parlare subito con la figlia. Quella stessa sera a cena, il conte stesso aprì l’argomento: “Cos’è questa cosa con questo villano?”

Intanto questo villano, come lo chiami tu, ha un nome. Per tua informazione: Stefano Cascio!” La ragazza fin da subito volle dimostrare che aveva intenzioni poco diplomatiche.

Va bé… con questo Cascio! comunque cos’è questa storia. 

La storia è che lo amo e me lo prendo!”  

Ma che ami… che prendi!... non sai quel che dici! Sei pazza…” replicò furioso il conte.

Ti ho detto che lo amo e me lo sposo!... Con o senza il tuo volere!...”

Elisa, ma la senti a questa?” chiese furente alla moglie, “dimmi cosa devo fare con lei…”

Le ho già detto che è una follia e che non avresti mai acconsentito, ma ha la testa più dura di tuo zio Riccardo…”

Non nominarmi mai quel folle… per nessun motivo!” replicò il conte, e rivolto a Rebecca: “Senti a me, se vuoi prendertelo quella è la porta, fai pure. Ma sappi che da me non avrai nulla!”

E niente voglio!” urlò Rebecca, uscendo e sbattendo la porta.

Per tre mesi, la contessina non rivolse la parola a suo padre, concesse a lui soltanto il salotto. Una notte, però, Rebecca pensò che sarebbe stato meglio riprendere i rapporti con suo padre: addolcendolo l’avrebbe convinto.

Da quando non aveva più rivisto il suo Stefano, l’unico pensiero della giovane era lui: tutto il giorno lo vedeva davanti a lei, ogni sera si addormentava col suo nome tra le labbra. Per lei, soltanto il sono era ristoratore perché nel sogno poteva rivederlo.

 

 Scendendo rapidamente la scala, pensava alla fortuna di non avere in quel momento nessuno in casa.

Amore mio!...” gridò abbracciando l’amato.

Vita mia!...”esclamò lui stringendola forte a se.

Dove sei stato amore mio? Pensavo non mi avresti trovato più…”

Ti avrei cercata anche tutta la vita…”

Entra… entra che non c’è nessuno!” esclamò lei, solo in quel momento accortasi di essere per strada.

Chiusosi il portone alle loro spalle, il ragazzo cominciò a baciarla.

No… amore non è il momento…” disse Rebecca ansimando.

Perché?”

A momenti tornano…”

Va bene… va bene…” ribattè Stefano, mettendo da parte il fervore d’amore che ribolliva dentro di lui.

Amore portami via di qui! Ti prego…” continuò Rebecca. La sera prima, dopo tanti mesi, aveva riaperto l’argomento Stefano con suo padre, convinta di riuscire a convincerlo; a l’ennesimo rifiuto capì che non l’avrebbe mai convinto. Rimaneva soltanto una via d’uscita: la fuga con l’amato…   

Tuo padre che ha detto?”

Lasciamo perdere… a quello non importa niente di me, gli interessa solo il buon nome della famiglia, come dice lui. Come se contasse solo questo… Amore portami via da qui… ti prego…”

All’istante, Stefano nella sua mente trovò il modo: “Facciamo cosi: fra tre giorni, prima dell’alba, recati ai Biscottari. Mi troverai lì e verrai con me!”

Grazie amore, ci sarò…”

Capitolo 6

Quella sera prima della fuga, Rebecca cenò tranquillamente con i suoi discutendo amabilmente con entrambi, però, mangiò pochissimo; questo, insieme ad un continuo tremolio di un piede, insospettì Nunziatina che capì che qualcosa frullava nella mente della giovane. Altro comportamento strano, fu il coricarsi un po’ prima. Per Nunzia fu la conferma dei suoi sospetti.

Dopo qualche ora che si era coricata, Rebecca sentì aprire molto lentamente la porta. Era Nunzia, la giovane l’aveva immaginato e per questo rimase immobile nel letto, uscita la sua dama dalla stanza, Rebecca sentì il leggerissimo rumore della sedia inclinata su i due piedi posteriori che Nunzia appoggiò alla porta. Era un piccolo stratagemma usato dalla governante per controllare la giovane, lo usava quando Rebecca era piccola per evitare che uscisse dalla sua stanza senza che lei se ne accorgesse. Lei nella stanza di fronte con la porta un po’ aperta, si sentiva più sicura.

Però, Rebecca conosceva questo trucco, quindi aveva trovato i modi per aggirare l’ostacolo.

Sentiti quattro tocchi delle campane della vicina Cattedrale si destò, aprì l’armadio, e in una valigetta, inserì: un pettine; un piccolo specchio; due fazzoletti ricamati e una scatoletta con alcuni suoi affetti. Si avvolse in una mantella nera e si avviò per uscire, spinta la porta, dimenticatasi della sieda dietro sentì che stava per cadere, afferrando la spalliera riuscì a non farla cascare. Piano, piano, spostò la sedia e aprì lentamente la porta e riuscì ad uscire. Una volta fuori, sistemò la sedia per come era e fece per andarsene, prima, però, si avvicinò alla stanza di Nunzia, la porta come previsto era un po’ aperta, lei dormiva. Guardandola, in Rebecca si alzò un velo di malinconia, ma subito riuscì a scacciarlo: non poteva arrendersi adesso…

Uscì fuori che ancora non era l'alba, il primo respiro della libertà fu il più bello: senti la vita entrargli nei polmoni. Finalmente fuori da quella gabbia dorata. Disceso un breve tratto del Cassaro, svolto per il Protonatoro, lo percorse tutto e giunse nella piazzetta dell'Origlione, s'infilò per il vicolo Saladino, e in un balzo fu ai Biscottari. Giunta lì, si fermò mentre arrivava un carro che gli si parò davanti. Il carrettiere la guardò e gli fece cenno di guardare dietro, lei girati gli occhi vide il cassone e si insospettì vedendolo coperto da un pesante drappo nero. I dubbi divennero certezze quando il drappo si alzò leggermente e il viso di Stefano sgusciò fuori, la ragazza, pur col cuore in gola, capì tutto e da dietro salì sul carro e si nascose sotto il drappo. Il carrettiere fatto cenno al cavallo partì da lì.


Tre giorni prima, lasciata Rebecca, Stefano si diresse al Capo dove viveva un giovane che come lui aveva fatto parte dei picciotti di Garibaldi, e che in quell'occasione aveva conosciuto, Luigi il suo nome. Decise di andare da lui perché nell'occasione del loro incontro Luigi gli aveva raccontato di suo padre, vecchio carrettiere del centro storico di Palermo.

Dov'è Luigi?” chiese ad un anziano uomo poggiato ad un muro. Proprio in quella che doveva essere la casa di Luigi.

E tu chi sei? che vuoi da lui?”

Sono un picciotto di Garibaldi come lui, voglio conoscere suo padre!”

Allora ce l'hai davanti!”

Siete voi il carrettiere?”

Cosi dicono...”

Stefano, amico mio!” esclamò Luigi, che sentito il dialogo era sbucato fuori dalla stalla limitrofa alla casa.

Luigi carissimo... vedi che ti ho scovato!” disse stringendolo in un fraterno abbraccio. “Come va con la mano?”

Passato tutto!” Luigi nei combattimenti per la presa di Palermo era stato ferito, per questo non aveva potuto seguire i garibaldini alla conquista della Sicilia.

Qual buon vento ti porta qui? Come è andata la liberazione?”

Ci siamo fatti valere... la Sicilia è presa tutta, il Generale ormai sta veleggiando verso il continente.”

Ottime notizie porti allora giovinotto!” esclamò il carrettiere fino ad allora taciturno. “Cosa possiamo fare per te figlio mio?”

Stefano raccontò del suo amore per la contessina e insieme pianificarono la fuga con la giovane.


Il carretto, cigolando, attraversati i vicoli dell'Albergheria svoltò per la via Nuova, uscì da Porta Vicari e si ritrovò nella campagna. Avanzando per le trazzere giunse al ponte della Guadagna e lì attraversò l'Oreto; continuando ad avanzare giunse a Maredolce; lì, cominciò a risalire verso le pendici del monte Grifone. Giunto lì si fermò.

Siamo arrivati Sté!” esclamò Pino il carrettiere, battendo la grossa mano nel cassone.

Con un salto Stefano fu a terra, a Rebecca invece, stanca del burrascoso viaggio, servì l'aiuto del giovane per scendere.

Mastro Pino, grazie di tutto... mi ricorderò di te per sempre” disse Stefano.

Dovere ragazzo mio, dovere” chiuse lui. E rivolto alla ragazza: “Piacere di averla servita contessina” salutò inchinandosi.

Fatto questo, si mise sul carretto e partì da li.

Scomparso il carro, Rebecca si gettò tra le braccia dell'amato: “Amore mio, vedi cosa ho fatto per te?”

Sei stata fantastica mia gioia. Immensa!” rispose lui, stringendola forte. “Ma purtroppo il viaggio non è finito, dobbiamo cominciare la salita, dobbiamo arrivare prima dell'alba...” Detto questo, cominciarono la scala verso Belmonte.

Arrivarono in paese che suonava la prima messa, arrivati in casa di Stefano, papà Nino andò via subito contrariato dalla scelta scellerata di suo figlio: portarsi a casa la figlia del conte Moncheda... follia pura, continuava a ripetersi.

Entrando, Stefano la condusse al piano di sopra, passando per il pianterreno dove era l'asino, due capre e alcune galline; non c'era altro modo per raggiungerlo. Sopra trovarono mamma Giuseppa che li aspettava.

Lei è Rebecca!” esclamò subito Stefano, presentando la giovanissima innamorata alla madre.

Figlia mia, sono lieta di averti in casa mia e poterti servire... Sei davvero bella come mi ha detto mio figlio...” disse, carezzando dolcemente il viso della giovine.

A palazzo, appena si accorsero dell'assenza della contessina, scoppiò il panico. Nunziatina correva per i lunghi corridoi gridando: “Rebecca dove sei? Rebecca... Rebecca...”

La contessa Elisabetta, alla paura cominciò a mescolare la rabbia: me l'ha combinata grossa quella piccola pazza, se la trovo la chiudo in convento... Andava pensando. Il conte, partito all'alba per i poderi agrigentini, non si accorse dell'assenza della figlia; fortemente.

Assicuratisi che la contessina non c'era veramente, Elisabetta e Nunzia si sedettero esauste. “Dov'è andata? Dov'è?...” continuava a ripetere la contessa.

Elisa, io non so dove si trova ma penso che c'entri quel contadino belmontese...” accennò Nunzia.

Certo... come non ci ho pensato prima... sarà andata con quel pezzente. Stavolta mia figlia me la pagherà cara!” urlò, uscendo da lì, seguita da Nunzia. “Gregorio, andiamo al Mezzagno!” continuò rivolta al faccendiere, “Avvisa gli stallieri... di corsa... di corsa!”

Da lì, partirono con una carrozza e due uomini a cavallo, ognuno portando con sé un cavallo legato alla loro cavalcatura: la scala per Belmonte era percorribile solo a cavallo.

Rebecca cominciava lentamente a rendersi conto di ciò che aveva fatto: era davvero fuggita da casa, con e per Stefano. Sentiva di trovarsi nel posto giusto per lei: lì, in quella stanza umile fornita solo di un letto – fatto di un materasso in crine disteso su trespiti e assi di legno – una sedia e un crocifisso al muro. Lei, nonostante capisse di trovarsi tra povera gente, lontano dagli agi che la sua condizione gli avrebbe garantito, era lo stesso felice. Aveva il suo Stefano, il resto non le importava.

Mentre era assorta in questi pensieri, sentì un frastuono provenire dalla strada; si affacciò dalla piccola finestra e vide i cavalli. Sconvolta corse verso le scale...

Dov'è mia figlia?” urlò la contessa una volta dentro. Un servo si era fatto aprire quasi buttando giù la porta.

Scusi ma lei chi è?” chiese papà Nino, ritrovando il coraggio perduto quando Rebecca aveva messo piede in casa sua.

Chi sono io?... Dov'è mia figlia le ho già detto?”

In quell'istante, Rebecca apparve dalla porticina delle scale.

Qui sono madre!...” esclamò la giovane, senza muoversi da lì.

Vieni... andiamo a casa...” replicò la contessa.

Stranamente, Rebecca rimase immobile dov'era.

Ti ho detto andiamo...” Vedendo che sua figlia non si muoveva, Gli andò incontro per afferrarla. “Ti ho detto andiamo, ingrat...”

No! Contessa così non si fa...!” urlò Stefano, fino ad allora rimasto taciturno, stendendo il suo vigoroso braccio verso di lei e riuscendo a bloccarla. “Adesso decide sua figlia!”

Lei non decide proprio nulla, lei viene con me... lasciami maledetto” gridò, tentando di liberarsi. Ma la morsa di Stefano continuava a bloccarla. “E va bene... decida purè lei!” riprese la contessa, ricomponendosi.

Rebecca, vedi com'è comprensiva tua madre?” chiese ironicamente il giovane, “lascia decidere te... Che vuoi fare? vai o rimani?”

Rebecca attenta a te!” ribatté la contessa.

Contessa, lasci decidere lei...” disse mamma Giuseppa, avendo intuito l'amore immenso che la contessina provava per suo figlio.

Io rimango qui!” esclamò Rebecca più decisa che mai.

Cosa hai detto? Tu sei pazza, sei pazza!...” urlò la madre.

Rebecca andiamo a casa” disse Nunziatina, capendo che Elisabetta non sarebbe riuscita a convincere la giovane innamorata.

No! Non vengo...” ribatté decisa lei.

In quel momento, Nunzia, conoscendo il carattere irremovibile di Rebecca, capì che tutto sarebbe stato vano. Rebecca non sarebbe più tornata con loro.

Rebecca, l'ultima volta te lo ripeto... Vieni a casa, subito! Se rimani qui sarai diseredata, perderai il nome, il titolo e le ricchezze che ti spettano... Allora?” chiese sua madre, perdendo totalmente la pazienza.

Senza Stefano non so che farmene di tutto quello che hai detto!”

Sentendo queste parole Elisabetta montò su tutte le furie: “Va bene, come vuoi tu! ma dimenticati il mio viso, non mi vedrai mai più...” Detto questo, uscì furiosa da lì lasciando il paese.

Appena sua madre se ne andò, Rebecca abbracciò Stefano e si ciolse in un pianto inarrestabile.

Quella notte, Rebecca non chiuse occhio: troppa era la tensione accumulata in quella giornata. Da un lato sentiva la mancanza della madre, consapevole che non l'avrebbe mai più rivista; dall'altro – più forte della malinconia – era orgogliosa di essere riuscita a vincere sua madre e a rimanere accanto all'amato.

Stefano, prima di prendere Rebecca, aveva pianificato tutto: fino al matrimonio non avrebbe toccato la giovane; la celebrazione si sarebbe svolta nel giorno di domenica, il giovane non tollerava l'idea di sposarla in sordina, come era creanza in quel caso. La sua Rebecca si sarebbe sposata inviolata e pura come il rango di contessa comandava.

E venne il giorno del si...

Mentre i futuri sposi entravano in Chiesa, gli astanti in piazza furono colpiti dall'arrivo di due donne, una di loro di sicuro nobile rango, scortate da cinque uomini. Una delle donne, coperta da una velata nera, salì la scalinata ed entrò nel Tempio. Segnatasi, si fermò in un angolo in fondo alla Chiesa. Appena Rebecca pronunciò il sì, la dama velata uscì dalla Chiesa e scese rapidamente la scalinata; giunta alla base, salì in groppa alla cavalcatura e, con il resto della compagnia già in sella, scomparve da lì. 

Capitolo 7

14/03/1861

Presidente!!... ma che hanno in testa sti savoiardi?... Il debito lo abbiamo fatto per aiutare Garibaldi e dobbiamo pagarlo noi?...” gridò un uomo, mentre nel salone parrocchiale infuriava il dibattito della seduta del primo consiglio comunale dopo l'annessione.

Qualcuno queste 624 onze deve pur pagarle?” rispose il presidente.

Noi non pagheremo nulla! …” risposero dalla folla, “cosa daremo da mangiare ai nostri figli?...”

Figlioli, calmatevi... ascoltate!” irruppe padre Angelo, “questi pover'uomini non hanno di che sfamarsi; come faranno a pagare quest'iniquo balzello?”

E lei cosa dice di fare?” chiese il presidente.

Io consiglio di far pagare il debito a chi può pagarlo: i possidenti, i proprietari terrieri...”

Sentito questo, il dottor Del Grosso – consigliere comunale – prese la parola: “Sentite! Se siete d'accordo io farei pagare chi possiede almeno tre tummini di terra, 250 pecore o 20 vacche...”

Va bene dottore, votiamo!” esclamò il presidente, che già no ne poteva più. “Cancelliere, ai voti: votiamo la risoluzione Del Grosso!”

I favorevoli furono sei i contrari tre: il consiglio approvò.

Uscito dal salone parrocchiale, lì si era tenuta la seduta, Stefano vide venire incontro a lui la sorella Rosa correndo: “Stè... sta nasc... endo...” disse col fiatone.

Madonna santa...!” esclamò Stefano, cominciando a correre verso casa. Arrivato, corse lungo le scale; mentre saliva senti il primo vagito di suo figlio.

Ch'è successo?” domandò, giunto sopra.

E' nato Sté, guarda ch'è bello!” esclamò mamma Giuseppa, mostrandogli il nascituro: un bellissimo bambino di carnagione chiara.

Guardandolo si commosse e si voltò verso Rebecca, esausta. “Hai visto cosa hai fatto?” chiese a lei baciandola in fronte. “E' bellissimo... bellissimo... Ti amo da impazzire...”

Anch'io ti amo...” bisbigliò Rebecca con un filo di voce.

Ad inasprire il già teso rapporto tra i belmontesi è Torino, arrivò la chiamata alla leva dei nati nel 1840 Giovanbattista compreso.

Rebecca ma che dici?” chiese papà Nino preoccupatissimo.

Gnorpadre mi dispiace, ma c'è scritto quello che le ho detto... gliela rileggo: Giovanbattista Cascio di anni 21, il 15 del corrente mese deve presentarsi al porto di Palermo per partire alla volta di Napoli e da lì per Torino, per ivi adempiere agli obblighi militari come stabilito dalla legge n. 63 del 30 giugno 1861. La durata di tale obbligo è fissata in anni cinque.” La lettera venne letta dalla giovane nuora perché era l'unica ad avere la littra.

Titta era pietrificato, soltanto papà Nino sembrava avere la forza di reagire: “Uno campa un figlio ventuno anni per darlo a loro, ma poi cinque anni... E poi dov'è sta Torino, dov'è?”

Padre calmatevi...” irruppe Titta, più spaventato di lui ma deciso a tranquillizzare suo padre, “non mi succederà nulla, e poi è la legge.”

Ma che legge e legge” riprese Nino, “ma lo capisci che vai a rischiare la vita per loro: I Savoia! Ve lo dicevo che con loro sarebbe stato peggio...”

Tant'è, tra le grida di suo padre, e le preghiere di sua madre e sua moglie, il 15 luglio Titta partì alla volta di Torino.


Io voglio portarglielo!” ribadì un giorno Rebecca.

Ancora lo ripeti?... ma non ricordi come ti disprezzò allora?...”

Lo ricordo benissimo, ma è sempre mia madre... deve conoscere mio figlio...”

Lascia perdere, ti disprezzerà ancora.”

Va bene, come vuoi tu...” chiuse lei, ma la sua mente già aveva pianificato.

Quella mattina, approfittando dell'assenza del marito – da due settimane alla Cannavata con le pecore – mise in azione il suo piano: all'alba si alzò, preparò il piccolo fagotto e, dicendo a mamma Giuseppa che andava a messa, uscì di casa. Invece di andare in Chiesa, però, cominciò a salire per la Giarritedda; giunta alla Portella di Palermo iniziò a scendere per la scala.

Giunta ai Chiavelli stremata, si fermò: era senza fiato. Una donna un po' aldilà con gli anni si accorse di questa giovane forestiera con questo bimbo tra le braccia, e gli si avvicinò: “Dove vai figlia mia?”

Sto andando... in città...” rispose Rebecca ansimando.

Sei stanchissima, entra, riposati un po'...” disse l'anziana, prendendola per il braccio e accompagnandola dentro casa. “Siediti” continuò porgendole una sedia, e dandole un po' d'acqua: “Bevi, riprenditi”.

La ringrazio per le sue premure madre santa.”

Niente, niente... piuttosto dove vai sola con questa mattinata, con questo piccolo?” La donna guardando la giovane, ma soprattutto ascoltando il suo elegante modo di parlare, aveva capito che quella era una donna di sangue nobile e per questo incuriosita aveva posto tale domanda.

Madre mia la storia è lunga e complicata, le dico soltanto che vengo da Belmonte e sto andando al Cassaro a far conoscere questo dono di Dio a mia madr...” A quel punto la giovane si commosse e non riuscì più a proseguire. L'anziana donna, vedendo tale accoramento si guardò dal porre altre domande. “Aspettami qui un attimo!” disse alla giovane uscendo. Si era posta l'obiettivo di aiutarla.

Torno poco dopo: “Figlia mia purtroppo se ne sono andati” disse rattristata.

Ma chi? chi se ne andato?...” chiese Rebecca.

Avevo pensato di farti accompagnare da mio nipote Paolo che, con la moglie Luigia, ogni giorno scende al Capo col carro per andare a vendere pesche.”

Madre mia non doveva, non c'era bisogno... Anzi vado!” esclamò alzandosi, ormai pronta ad andare.

Facciamo così...” riprese l'anziana, intenzionata a non demordere, “se devi tornare oggi stesso in paese, quando ti sbrighi vai al loro banco del mercato e gli dici che ti manda zia Menica e che devi tornare con loro ai Chiavelli.”

Madre santa, la ringrazio con tutto il cuore!”

Niente, Dio mi ricompenserà!”

Sicuramente...” chiuse Rebecca, uscendo da lì.

Avanzando a piedi verso Palermo, spesso Rebecca dovette fermarsi: il caldo era tanto fin dalla mattina, l'afoso tipico dell'estate siciliano. Intorno alle 11, dopo circa due ore di cammino, la giovane arrivò in vista del Palazzo Moncheda. Prima di avvicinarsi troppo si fermò un attimo per riposare e sistemare un po' il bambino e se stessa, ed anche per prepararsi emotivamente all'incontro con i suoi genitori: non sapeva come l'avrebbero accolta.

Giunta vicino al portone, Nunzia la vide dalla finestra e col cuore in gola scese velocemente le scale. Rebecca, arrivata sulla soglia d'ingresso, venne bloccata da un lacché – era uno nuovo, la giovane non l'aveva mai visto. “Lei chi è?” chiese lo sconosciuto.

Cosa... chi sono io?... ma che sta dicendo?...” balbettò Rebecca, incredula di quella domanda. Comunque fattasi coraggio fece per rispondere, “Io sono Reb,,,”

Rebecca... Rebecca mia...” disse Nunzia correndo verso di lei, “e questo bimbo?... non dirmi che è tuo!” esclamò arrivata da lei baciando il piccolo.

Mio è... mio, si chiama Antonino!”

Bellissimo, bellissimo davvero... Ma vieni entra.”

No!” esclamò il lacché, “se non l'annuncio alla contessa non entra nessuno!”

Ma è sua figlia!...” ribatté Nunzia.

Appunto, la contessa mi ha raccomandato di annunciarle l'eventuale venuta di sua figlia!”

E va bene, mi annunci pure...” chiuse Rebecca.

Da quando sei andata via qua sono diventati tutti pazzi” disse Nunziatina a Rebecca, mentre il lacché andava ad annunciarla.

Torno pochi istanti dopo e disse: “Può entrare!”

Grazie!” esclamò Rebecca con apparente calma, ma dentro la sua anima ribolliva.

Salite nervosamente le scale, con Nunziatina al seguito, Rebecca si diresse nella camera dove sua madre soleva accogliere gli ospiti. Lì infatti la trovo.

Salve!” disse freddamente la contessa. E chiese: “Che vuoi?”

Rebecca, che invece di ricevere parole calde e dolci, magari un abbraccio, come si sarebbe aspettata, si senti porre questa glaciale domanda; rispose: “Niente voglio... sono venuta a farti conoscere mio figlio...” Mentre diceva questo distese le braccia come per porgergli il piccolo. “Antonino si chiama!”

La madre lo guardò a stento. “Bel bambino...” disse soltanto, quasi distrattamente. Nessun segno d'affetto, nessuna parola consolatoria uscì dalla sua bocca.

Dov'è mio padre?” chiese alla madre. Convinta che forse suo padre gli avrebbe potuto trasmettere quell'affetto negato dalla madre.

Non c'è, è uscito...”

Vedendo la totale chiusura da parte di sua madre, Rebecca capì che era meglio andarsene e lasciar perdere...

Allora vado?...”

Come vuoi!” rispose gelida la contessa.

Va bene... Ti saluto madre...” disse baciandola sulla guancia, cercando di nascondere il fuoco che gli bruciava dentro.

Uscita da lì, si precipitò lungo le scale; Nunzia la seguì, riuscendo a raggiungerla quando era già quasi al portone. “Ferma!” gridò afferrandola per un braccio. “Rebecca... ti chiedo scusa per il comportamento di tua madre... non capisco cosa le ha preso... Io ti voglio bene e sicuramente anche lei.”

Tu Nunzia non devi chiedermi scusa per lei... so che tu mi vuoi un gran bene, ma ho capito che qui sono ormai di troppo. Ciao!” chiuse scappando via.

Si fermò dietro l'angolo lasciandosi andare ad un pianto amaro. Sentendo il pianto di sua madre, anche il piccolo Antonino cominciò a piangere. Ripresasi poco dopo, ebbe il suo ben da fare per calmare il bambino. Quando il piccolo smise di piangere, Rebecca si diresse al mercato del Capo... 

Parte seconda; capitolo 8

L'odio verso Torino raggiunse l'apice nel settembre 1866...

Assalto!” gridò Riolo, da tutti visto come capopopolo.

All'improvviso le balle di paglia che ostruivano il passaggio della gendarmeria italiana vennero date alle fiamme, e una folla inferocita di contadini e operai belmontesi scese da Petrosino e da Chiusa d'Elia verso valle, con forconi, zappe e vanghe e si gettò verso le guardie senza paura convinti di scacciarli.

I gendarmi non ebbero nemmeno il tempo di caricare gli schioppi, i villani cominciarono subito a colpire con inaudita violenza. Colta di sorpresa la brigata stava per perire sotto i colpi dei belmontesi. Vedendo questo, il tenente ordinò urlando: “Ritirata!... ritirata!...”

I gendarmi, impauriti e confusi, riuscirono a liberarsi dalla morsa dei paesani e si diedero alla fuga abbandonando armi e munizioni, prontamente raccolte dai villani.

Fratelli! ora verso Palermo!...” gridò Riolo.

Si!... a morte i padroni!...” urlò Matteo Cascio.

Risalendo dalla Giaritedda si gettarono per la scala verso Palermo.

La rivolta apparentemente divampò in seguito all'insostenibile pressione fiscale e all'asfissiante stato di polizia instaurato dai piemontesi. In realtà, nascondeva l'intenzione di restaurare un governo filo-borbonico perché la monarchia sabauda vedeva nel meridione una terra da occupare o poco più. Infatti, la rivolta aveva insignito a proprio capo politico un autorevole personaggio di provata fede borbonica: il principe Bonanno di Linguaglossa.

Matteo la sera prima dell'assalto dei belmontesi, aveva cercato di convincere i suoi fratelli Titta e Stefano, titubanti all'azione, a partecipare alla rivolta.

Siete due vili!... tu Titta, dopo cinque anni della tua vita buttati per la leva, non hai il coraggio di ribellarti a coloro che ti hanno costretto a perderli...”

Matteo cerca di capire...” cercava di calmarlo Stefano, ma niente il ragazzo era un fiume in piena: “Ma che cerca di capire!... ma poi parli tu che sei più vile di lui... il garibaldino...”

Matteo smettila!” irruppe Titta, “io ho tre figli e Stefano due, non possiamo perderci in queste avventure!”

E voi per i vostri figli dovete farlo, volete che crescano schiavi di Torino?”

Non puoi capire...” disse Stefano.

Fate come volete codardi!” chiuse Matteo, uscendo e sbattendo la porta innervosito.

I fratelli maggiori di Matteo non avevano tutti i torti nel non voler partecipare alla rivolta, non perché non fossero legittime le motivazioni della stessa, ma perché la rivolta, come quasi sempre accadeva, si chiuse dopo sette giorni senza raggiungere gli scopi prefissati. Infatti, al grido disperato dei centomila contadini della Conca d'Oro e dei paesi circostanti, che chiedevano una maggiore giustizia sociale, la borghesia rispose tiepidamente facendo fallire miseramente l'insurrezione.

Durissima la vendetta piemontese: 40 mila soldati furono mandati in Sicilia in seguito alla dichiarazione di stato d'assedio dell'isola. Le vittime tra i popolani furono circa 25 mila: strage...


Ginevra, la piccola figlia di Stefano di quattro anni, una mattina cominciò a vomitare.

Stefano corri dal dottore e portalo subito qui!...” esclamò Rebecca, assai impaurita. “Figlia mia, Ginevra che hai?...”

Sto male... sto male, aiutatemi...”

Sta arrivando il dottore, stai tranquilla...” Mentre diceva questo vide che il colorito della piccola si faceva verdognolo, improvvisa arrivò la prima devastante scarica di dissenteria, immediata la seconda, la terza, la quarta...

Mamma che mi succede, aiutami... aiutami...”

In quell'istante entrò il medico, vedendo il colorito, toccando la pelle gelida e constatando le scariche inarrestabili, capì subito di cosa si trattasse,

Cos'ha dottore? Mi dica cos'ha...” chiese supplicante Rebecca.

Purtroppo... è... si tratta...”

Parli dottore... parli, la prego!” gridò Stefano.

Colera, purtroppo colera...”

O Dio è tornato!” esclamò mamma Giuseppa, nel frattempo accorsa. Il colera aveva già colpito quella famiglia: l'anno prima aveva ucciso Salvatore, marito di sua figlia Concetta, lasciandola vedova con tre figli piccoli d'accudire.

Madonna santa... no... Madonna santa... Madonna santa!...” cominciò ad urlare Rebecca.

Non fare così... calmati!” ribatté Stefano, cercando di rassicurarla.

Come faccio a calmarmi?... come faccio?...”

Devi farlo, non gridare!”

Figlia mia calmati...” disse Giuseppa.

Mamma... ho sete...” mormorò Ginevra.

Si, gioia!” esclamò Rebecca, smettendo per un attimo di piangere.

Dottore che si può fare?” chiese disperato Stefano.

Poco Stefano... per la piccola poco...” rispose il medico, trascinandolo lontano dal giaciglio della piccola, “state attenti a voi piuttosto. Non avvicinatevi troppo a lei, e se dovete proprio farlo, sempre con un fazzoletto davanti. E' assai contagioso...”

Sentendo queste parole, Stefano si senti trafitto da mille lame...


La piccola bara uscì dalla Chiesa in una gelida mattina invernale: cielo cupo, pioggia ed un forte vento che sferzava gagliardo. Per raggiungere il piccolo cimitero delle anime sante, due operai dovettero prima creare un solco nel manto di neve che copriva la strada.

Quando la bara venne coperta completamente di terra, il buio nel cuore di Stefano e Rebecca fu totale... non avrebbero più rivisto la propria figlia. Non c'era stato modo di salvarla. Adesso come ridare un senso alla vita? Non tanto per loro ma per il piccolo Antonino e per la creatura che stava crescendo nel grembo di Rebecca...


Salvatore era venuto a mancare nell'estate del '65 lasciando Concetta nella più totale disperazione: tre figli piccoli ed una casa che sembrò gli fosse piombata nelle nude spalle; ma in qualche modo per amore dei figli bisognava pur ricominciare...

Quella sera a casa Cascio sentirono bussare alla porta: “Buona sera don Antonino!” disse l'ospite, appena gli aprirono.

Gaspare, cosa ti porta?” chiese Nino, “ma entra, entra pure...”

Donna Giuseppa, i miei ossequi!” esclamò Gaspare, rivolto a Giuseppa che con la figlia Rosa era impegnata nel buchino.

Gaspare era un uomo sulla trentina alto e scuro con due grandi mani da instancabile lavoratore. Nino lo conosceva da sempre dato che era figlio di sua cugina Giovanna.

Don Antonino, intanto le porgo le mie condoglianze per la scomparsa di sua nipote, purtroppo questo male non si ferma davanti a niente e nessuno. Si è portato anche la mia cara moglie lo scorso anno... Ah che pena quelle mie due figlie senza madre!...” disse asciugandosi con la mano una lacrima che dagli occhi gli sgorgò.

Purtroppo niente possiamo fare!” esclamò Nino. “anche mia figlia Concetta ha perso il marito, come sai.”

Eh sì, che pena... che pena” ribatté Gaspare, contento di essere riuscito a indirizzare il discorso verso gli argomenti che lo interessavano. “Sarà difficile anche per lei, poverina... tre figli d'accudire senza un uomo in casa...”

Eh sì...” riprese Nino, “fortuna che i suoceri le hanno lasciato la casa dove viveva, se no ancora peggio... qui già siamo quattro qui e Stefano sopra, per accasarlo ho dovuto trovare un posto per l'asino per sistemarci qui. Se non era per i quelle sante persone non so come avrebbe fatto, povera figlia...”

Don Antonino, io sono venuto per parlare di sua figlia...”

Di Concetta? E perché?”

Don Antonino, come le dicevo le mie figlie senza madre, i suoi senza padre...”

Gaspare che intendi? Parla chiaramente!” disse Nino alzando il tono di voce.

Giuseppa, che da un pezzo aveva capito dove Gaspare sarebbe andato a parare, per sentire meglio si avvicino con la scusa di ravvivare il fuoco che ardeva nel braciere.

Don Antonino, io, se vuoi l'avete a piacere, vorrei sposare vostra figlia!”

Nino, a tali parole, sembrò rabbuiarsi in viso, ciò preoccupo parecchio Gaspare. Nino stette in silenzio e dopo qualche secondo proferì parola: “Gaspare, sono contento della tua proposta e potrei anche essere d'accordo, però... insomma... vorrei sapere... sai mia figlia...”

Don Antonino chiedete, chiedete purè... che volete sapere?”

Mia figlia ha tre figli e quindi mi servono garanzie: quanta terra possiedi?”

Io ho una salma di terra a Montagnoli, mezza la semino a grano, l'altra mezza: 5 tummini a frutteto e 3 a coltivazione. Pianto e raccolgo tutto quello che Dio ha creato...”

Gaspare sei un brav'uomo... mia figlia non può sperare di meglio. Dammi la mano figlio mio...”

Grazie don Antonino... grazie assai...” cominciò a dire Gaspare stringendogli forte la mano.

Concetta accetto di buon grado il matrimonio con Gaspare, era un brav'uomo, un gran lavoratore e aveva amato tantissimo sua moglie. La sua felicità deriva anche dal fatto che un uomo era indispensabile per reggere la sua casa e sfamare i suoi tre figli.

Capitolo 9

In quell'estate 1867 Stefano decise di portare con lui il figlio Antonino di ormai sei anni, per fargli scoprire i lavori che la sua famiglia praticava. Cominciò con la pisatina, lo condusse all'aria – ampio spiazzo dove avveniva l'operazione – e lo sedette su una roccia nella parte alta da dove poteva mirare il tutto: suo padre con gli zii che pestavano i regni con dei lunghi bastoni in modo che il grano si staccasse dalla spiga; fatto ciò, si girarono di modo che un alito di vento passasse davanti a loro e con l'aiuto dei bastoni tirarono in aria le spighe. Al piccolo Antonino sembrò magia vedere il grano rimanere a terra e la paglia – il gambo della spiga – volare via.

Mamma... bellissimo è stato! Volava la paglia...” raccontò entusiasta il piccolo la sera a Rebecca.

Domani davvero con te lo porti?” chiese Rebecca a Stefano.

Sì, deve capire un po'...” rispose, e rivolto al figlio chiese: “Ninuzzo domani ci vieni con me?”

Certo papà... mi piacerà, assai mi piacerà...”

L'indomani all'alba, Stefano salì in groppa alla giumenta saura, mise il piccolo davanti a lui e partì. Il viaggio verso la Cannavata era molto lungo...

Come ad ogni estate, i Cascio portarono le proprie pecore lì, perché era molto più in alto rispetto a Belmonte, e quindi i pascoli erano assicurati. Lì, ogni anno ritrovavano tutti i pastori della zona con le loro greggi e con loro condividevano tutto.

La transumanza dei Cascio era avvenuta qualche giorno prima, adesso, quando tutto era ormai sistemato, dopo quattro ore di cammino arrivò Stefano con Ninuzzo. Nonno Nino, Titta e Matteo furono felicissimi di accogliere il loro amato nipotino.

Lì, la giornata cominciava molto presto: all'alba si mungevano le pecore: il curatolo rimaneva nell'ovile a fare il frutto – formaggio e a seguire ricotta – i pastori invece uscivano al pascolo con le greggi; intorno a mezzogiorno, col sole che picchiava forte, le si portavano all'abbeveratoio. Verso le quattro del pomeriggio, si ritornava all'ovile; si mungeva di nuovo ed il curatolo ripeteva la sua opera, prodigiosa agli occhi di Ninuzzo: quel formaggio che col caglio dal latte nasceva, rimaneva inspiegabile agli occhi del piccolo. Tolto il cacio dal calderone, lo si metteva nelle fascelle e lì prendeva forma. Fatto questo – tenendo la fiamma sempre viva – dal siero rimasto, la ricotta usciva fuori. Bellissimo per Nino cenare con la zabbinata: ricotta col siero e pane.

Tornarono a casa dopo un mese, e la trovarono in subbuglio...

Devi prendertelo ti ho detto!...” urlava nonno Nino alla figlia Rosa.

No, non lo voglio e basta!...” gridava lei.

Ma perché? ha pure il terreno a limite...”

Che succede padre?” domandò Stefano, vedendolo inferocito.

Nemmeno a questo vuole!...”

Ma a questo chi?... fatemi capire...” chiese nuovamente.

E' venuto Giorgio Giordano per tua sorella, lo sai chi è... quello che ha il terreno al Savuco accanto al nostro; gli avevo detto che andava bene, arrivo da lei è non le nostra bene neanche questo... E' il terzo che si propone, già due volte è capitato... Come devo fare? Come?...”

Non lo voglio e basta!...” gridò lei, scappando su per le scale.

Tu mi farai morire di crepacuore... te lo dico io!...” urlava Nino, nel delirio più totale.

Rebecca era sicura che la cognata dopo quella vociata con suo padre sarebbe corsa da lei, tante volte era già successo: quando aveva incomprensioni con i suoi genitori o problemi che non voleva raccontare loro, Rosa correva sempre da lei.

Che c'è Rosa?” chiese, vedendola agitatissima.

Un altro matrimonio, no ne posso più... mio padre mi soffoca...”

Cara Rosa, ma è normale che tuo padre voglia che tu ti sistemi, per questo cerca un uomo per te...”

E va bene... a te non posso mentire...” cominciò a dire Rosa, “la verità è che non voglio sposarmi perché già lo sono.”

Ma che dici, ma sei impazzita?” chiese sconvolta Rebecca.

No, non sono impazzita... sono sposata con lui” disse indicando il Crocifisso appeso al muro.

Ma che stai dicendo?...” ribatté la cognata quasi svenendo su una sedia.

Da qualche anno mi è presa un'inquietudine, qualcosa da non dormire la notte, soltanto in preghiera si attenuava. Ho pregato, pregato tanto affinché Cristo mi aiutasse a capire cosa mi stesse accadendo; qualche settimana fa, nel mio cuore ho capito cosa fosse quella strana inquietudine. Era bisogno di essere solo sua e di nessun altro, nessun uomo può darmi quello di cui ho bisogno; mio padre può smetterla di cercare. Voglio essere strumento nelle mani di Dio. Non mi sposerò mai!”


... e benedicta fructurs ventri tui Jesus...”

Sancta Maria, mater Dei ora pro nobis peccatoribus...”

Da febbraio non pioveva e adesso a ottobre quasi terminato i campi erano aridi, si rischiava una vera carestia, questo spinse le pie donne – vedendo i padri ed i mariti disperati dalla mancanza di precipitazione piovose – a chiedere al Reverendo di portare il Tabernacolo in processione tra i campi. Appena usciti dalla Chiesa padre Angelo cominciò, con il popolo belmontese, la recita del Santo Rosario.

La processione scese verso la Chianotta procedendo nei violi, risalì verso Santa Caterina e scendendo per Pitazzo giunse in piazza e rientro in Chiesa...

Benedicta vos onnipotent Dei... Pater, Filius et Spiritui Sanctu...” chiuse padre Angelo.

Amen!” concluse la folla.

Dopo due giorni, all'alba della festa d'Ognissanti, cominciò a piovere non cessando prima di un mese.


Quella mattina Rebecca, uscendo di casa con la suocera, le due figlie e la cognata Rosa per andare a messa, vide due occhi che da una porta-finestra la guardavano, la persona nascosta, accortasi di questo, chiuse subito l'anta.

Sedutasi nel banco, sentì arrivare un'attempata signora di gran corsa pochi secondi prima che cominciasse la celebrazione. Riflettendo, ricordò che la scena del ritardo si ripeteva quasi tutti i giorni, questo la insospettì, pensò subito di parlarne con mamma Giuseppa ma per quella volta no ne fece parola.

Quella scena andava avanti ogni mattina; Rebecca non poteva sapere che durava da anni e anni. Comunque un giorno ne parlò con la suocera: “Mama, hai notato quella signora che ogni giorno arriva in Chiesa all'ultimo minuto?”

Chi... Mimma? Ma quella sono anni e anni che fa così...”

Uhm... mi sono accorta che ogni mattina ci scruta dalla porta... ma che ha da guardare?”

Vero dici?... non ci ho fatto mai caso... Non saprei... Però potrei chiedere a Franca, Mimma è cugina di suo marito... ”

Se puoi fallo, voglio proprio sapere cosa ha da guardare...”

Capitolo 10

Ormai da due mesi, Matteo non smetteva gli di pensare a lei, l'aveva vista al ritorno da una dura giornata al pascolo con le pecore. Il sole già era scomparso dietro Billimunti ma avrebbe ancora assicurato luce per un po', era stata una giornata piovosa di inizio dicembre però sul finire del dì il sole era tornato diradando le poche nuvole rimaste. Scendendo da Santa Caterina, alle prime case la vide con la coda degli occhi affacciata alla porta-finestra; non si fermò per non insospettire nessuno. Sapeva benissimo chi era lei: si trattava di Francesca la figlia di massaro Cola, l'unica figlia femmina, a cui seguirono cinque maschi.

La rivide alla veglia di Natale e lì, quando lei furtivamente ricambiò lo sguardo, capì che sarebbe stata la donna della sua vita...


Quella sera, dopo aver cenato dai suoceri – come sempre avveniva, in tutte le case il focolare si trovava nel piano terreno – Rebecca, con Stefano e i piccoli si apprestò a salire sopra, dove avevano i loro giacigli; non aveva fretta di andare a dormire ma di dedicarsi a quella che riteneva una sana abitudine: la breve lezione di Ninuzzo. Si era convinta dell'importanza che suo figlio, come lei, sapesse leggere e scrivere. Aveva preparato tutto: per il pennino, la carta e il calamaio aveva chiesto a padre Angelo – uno dei pochi alfabetizzati del paese – inoltre aveva predisposto un banchetto e una piccola sedia. Quando cominciavano a salire le scale, Ninuzzo sapeva che era ora di patire, non capendo l'importanza di alfabetizzarsi – nessun bambino della sua età studiava – per lui era un tormento, ma si prestava lo stesso.

Allora Nino, scriviamo: G come...?”

Gatto!”

Bravo, scrivi gatto.! Adesso I come...?”

Isola!”

Bravo il mio ometto... L come...?”

Limone!”

Non tenerlo troppo!” esclamò Stefano, “è stanco, oggi ha lavorato come un uomo: ha munto dieci pecore. Diglielo Nì...”

Sì, bello è stato...”

Lo so che sei un ometto, però per esserlo fino in fondo devi imparare a leggere” replicò Rebecca.

Rebecca scendi subito!” esclamò mamma Giuseppa dal piano terra, urlando nella scala; “subito però!”

Dal tono di voce, la giovane capì subito che era successo qualcosa di grave, per questo si precipitò giù per le scale.

Che succede mamma...?” chiese una volta giunta.

Contessa di Moncheda? Lei è?” chiese in risposta un uomo ancora all'uscio, che Rebecca ancora neanche aveva notato.

Sì, io sono...”

Sentita la risposta, l'uomo si decise ad entrare. Era un uomo sulla quarantina ben vestito, dagli abiti si capiva provenisse dagli alti ceti della società.

Contessa, porto ambasciata dalla contessa sua madre...”

Mia madre...?” esclamò Rebecca, stupita di essere ancora nei pensieri di sua madre.

Sì, la contessa di Mondragone” rispose quell'uomo, “si tratta della salute del conte; quest'inverno ha aggravato notevolmente il suo asma peggiorando il suo stato di salute, aggravamento che è causa di continue crisi respiratorie, una delle più gravi l'ha colpito la notte scorsa. La contessa mi ha detto di dirle che suo padre sta molto male e che non è detto che sopravviva, tuttavia ha espresso volontà di vederla. E' troppa in lui la paura di morire prima di rivederla.”

Rebecca a quelle parole stava per mancare, fortuna che aveva una sedia vicina. Lì si sedette ansimante: da un lato era felice che suo padre non l'avesse dimenticata, dall'altro era assai dispiaciuta di non trovarsi al suo capezzale.

L'uomo, finito di parlare se ne andò, scomparendo all'improvviso, così com'era apparso.

A Rebecca, rimasta immobile, l'invasero migliaia di altri pensieri. Non capiva cos'era giusto fare. All'improvviso risolse, decidendo sul da farsi...

Quella mattina un forte vento freddo sferzava il viso di Rebecca, all'alba erano partiti per raggiungere al più presto la città, adesso scendendo dalla scala non smetteva di pensare a suo padre, nonostante quello che era successo a causa di Stefano, Rebecca aveva benigni ricordi suo padre: l'aveva coccolata tanto da piccola, chiamandola principessina la faceva sentire amata.

A passo svelto arrivarono al Cassaro prima che il timido sole invernale fosse alto. Risalendolo, a metà strada tra i quattro canti e il palazzo, videro davanti a loro, anche se ancora distante, una suora che lentamente come loro risaliva il viale. Rebecca e Stefano non ci fecero neanche caso, ma mentre stavano per superarla Rebecca sentì una mano che le afferrava un braccio.

Ehi ma cos'è...?” esclamò la giovane girandosi di scatto verso la monaca.

Rebecca figlia mia!...” urlò la suora, ormai sicura di chi avesse davanti.

Sorella... ma ci conosciamo...” ribatté Rebecca dubbiosa. Ma poi: “Nunzia!... tu!” esclamò, riconoscendola.

Oh Rebecca... non posso crederci!” continuò Nunzia abbracciandola.

Stefano, hai capito chi è?” chiese la giovane al marito, ormai sciolto l'abbraccio.

Certo! La cara Nunziatina. Sorella, è una gioia immensa vederla” disse lui.

Adesso però, sono suor Maria Annunziata.”

Da quanto tempo?” chiese Rebecca.

Sono passati sei anni” cominciò la suora, “quando sei venuta a Palazzo l'ultima volta capii che quello non era più il mio posto. Rimasi molto male del comportamento che tua madre ti riservò, e poi senza di te la casa mi sembrava vuota, non aveva più senso restare ancora lì. Quella sera andai a dormire da una mia cugina all'Albergheria e lì restai per qualche mese, poi decisi di prendere la vita conventuale, andai alle Collegine della Sacra Famiglia: l'unico ordine sopravvissuto alla furia garibaldina. Lì fui ordinata col nome di suor Maria Annunziata... Scusa ma tu che fai qui?” chiese a conclusione.

Ho saputo di mio padre...”

Anch'io sto andando lì, è un brav'uomo” ribatté la monaca. “Sta molto male adesso!”

Lo so... è stato un buon padre... povera me... se perdo lui sarà la fine di tutto...” riprese Rebecca piangendo.

Su! Figlia mia, coraggio, non ti abbattere... Andiamo insieme...”

Giunti all'androne, l'usciere chiese loro che si annunciassero.

Sono Rebecca la contessa di Moncheda e questi è mio marito!” quasi urlò la giovane.

L'usciere, anche se insospettito dagli abiti tutt'altro che nobiliari dei due, quasi intimorito dal tono della voce di lei, li lascio entrare seguiti dalla colleggina.

Al piano superiore, Stefano si fermò poco oltre l'ingresso mentre Rebecca e suor Annunziata andarono verso le stanze. Dirigendosi verso la camera da letto, incontrarono il medico ed un presbitero che andavano via; questo inquietò non poco le due che affrettarono il passo. Davanti camera, Rebecca sospirò un attimo ed aprì. Entrando, vide suo padre agonizzante nel letto, un colpo allo stomaco fu per lei vederlo lì in quello stato. Con la coda degli occhi incrociò lo sguardo di sua madre che guardando lei si carico di odio; Rebecca non curandosene la salutò con un cenno del capo e corse al capezzale di suo padre.

Papà sono qui!” esclamo Rebecca stringendogli la mano.

Rebecca... tu... figlia mia... ti aspettavo...” bisbiglio il conte con il filo di voce che gli rimaneva.

Qui sono papà, solo per te, non andrò più via...”

Oh... amata figlia...” sussurrò suo padre spirando.

Papà!... padre!... non lasciarmi!...” gridò la giovane muovendogli la mano, carezzandolo; ma niente avrebbe potuto risvegliarlo, aveva ormai per sempre lasciato questo mondo.

Sentite le urla, Stefano corse verso le stanze ed entrato dov'era il suocero morto, sentì Rebecca che ancora urlava e gli andò accanto cercando di calmarla, non riuscendoci.

Le ventiquattrore ore successive, Rebecca le volle trascorrere lì, vegliando il corpo inerte del suo amato padre. In quelle tristi ore, la giovane notò tutta l'astio e il risentimento che sua madre nutriva per lei. La contessa madre trasformava i tentativi della figlia di avvicinarsi a lei, di cercare il contatto con la sua mano, di parlarle in occasioni per mostrare il suo profondo rancore per lei.

Solo l'indomani mattina, uscendo dalla cattedrale – dove si era tenuto il funerale – Rebecca riuscì a sfogare le tensioni di quelle ore. Il vuoto incolmabile che suo padre dentro di lei aveva lasciato, la consapevolezza del odio profondo di sua madre verso di lei la fece scoppiare in un pianto inarrestabile; Stefano con le sue parole che sempre l'avevano calmata stavolta non riuscirono in nessun modo a consolarla. Pianse lungo tutta la strada che la conduceva a Belmonte; solo davanti casa, per far capire poco della sua sofferenza ai suoi figli, riuscì ad arrestare il suo pianto.

Epilogo 

Tornata a casa, Rebecca non riusciva a vincere la tristezza: aveva perso suo padre e in qualche modo sentiva di aver perso anche la figura materna. Si sentì terribilmente sola. Ma non aveva fatto i conti con il destino...

Nelle ore della veglia al corpo di suo padre, in casa Cascio arrivarono notizie sconvolgenti. Giuseppa ricevette la visita della figlia Franca che recava notizie sulla cognata Mimma.

Mamma, ho parlato con mia cognata per quel fatto che mi hai raccontato di Rebecca...”

Davvero! E cosa ti ha detto?”

Ah non lo immagini! Ti ricordi che una ventina d'anni fa...”

Giuseppa dovette aspettare una settimana per parlarne con la giovane nuora, prima fu impossibile, Rebecca era troppo triste, inconsolabile.

Rebecca, devo parlarti...” disse quel giorno Giuseppa alla nuora. “Avrei voluto dirtelo prima ma eri troppo triste per potermi ascoltare.”

Dimmi mamma, cosa c'è?”

Prima siediti però...”

Tranquilla, puoi parlare...”

No no, siediti che meglio.”

Sedutasi Rebecca, Giuseppa ricominciò a parlare: “Devi sapere, che circa vent'anni fa, una forte carestia colpì Belmonte: piovve pochissimo durante l'inverno e a questo si aggiunse un attacco di colera che decimò le nostre famiglie. In una di queste, uccise il marito pochi giorni prima che la moglie partorisse il suo sesto figlio: la tanto attesa figlia femmina...”

Sì, ma cosa c'entra con quella che guardava!” esclamò Rebecca, alquanto impazientita.

Se mi fai parlare ci arriviamo. Dicevo, perso il marito, la vedova non aveva alcuna risorsa per sfamare la figlia appena nata. Non si seppe mai cosa successe, sta di fatto, che la bambina da un giorno all'altro scomparve dalle braccia della madre...”

Perché mi racconti questa storia, e poi la signora Mimma cosa c'entra?”

C'entra che è lei quella vedova!” rispose Giuseppa, urtata dall'ennesima interruzione. “Fammi finire... Come ti dicevo, Mimma non ebbe mai più notizie di sua figlia... Da quando sei arrivata in paese, vedendoti tutti i giorni in chiesa, si è fatta persuasa che sua figlia sei tu...”

Io?.., ma questa è pazza!..,” esclamò Rebecca, sbalordita da quelle ultime parole.

Franca glielo ha detto che non puoi essere tu, ma lei ha insistito dicendo che lei si arrenderà soltanto quando avrà avuto una certezza...” continuò Giuseppa.

Che certezza?... Cosa vuole da me?...”

Vuole essere certa che tu non abbia tre nei sulla scapola destra, tre piccoli nei in linea dritta vicino all'attaccatura del braccio...”

Non ho nessun neo nella scapola!”

Franca glielo ha già detto che non ne hai ma lei non ci crede...”

Se vuole crederci ci creda, è la verità. Che adesso non mi guardi più però...”

Quella sera, prima di coricarsi, Rebecca alzò la manica della sottoveste e guardò la sua scapola destra e vide. Nonostante aveva già visto, prese lo specchietto e guardò meglio: aveva visto e stava guardando i tre nei che da sempre aveva nella scapola destra.

Coricatasi, non riuscì a prendere sonno: pensava e ripensava a quanto raccontato dalla suocera, a quei nei. Tutta la sua vita gli passava e ripassava davanti.

Stefano sentendola girarsi e rigirarsi nel letto, le chiese cosa avesse. Rebecca, tremante d'angoscia e di paura, gli disse del racconto che la suocera le aveva narrato, di quegli strani nei e di tutti i dubbi che in lei quei racconti avevano creato. Quando da piccola chiedeva alla madre di quei nei, lei sviava l'argomento; quando le chiedeva perché non avesse un fratello o una sorella, non le dava nemmeno retta.

Stefano non condivideva i dubbi della moglie, per lui era tutta una coincidenza; ma vedendo l'angoscia negli occhi di Rebecca, le consiglio, per fugare ogni dubbio, di andare a Palermo a chiedere numi a suor Annunziata. Se tutta quella storia era vera, Nunzia doveva saperne per forza qualcosa.

A Rebecca l'idea sembro buona; quella mattina, con la scusa che le mancava tanto la sua vecchia bambinaia, in compagnia della cognata Rosa, partì alla volta di Palermo.

Arrivate al convento delle colleggine, furono accolte dalla suora guardiana nell'ampio scalone.

Che volete care figlie?” chiese loro la religiosa.

Vorrei parlare con suor Maria Annunziata” rispose Rebecca.

Va bene, vado al piano di sopra a chiamarla. Aspettate qui.”

Qualche minuto dopo, tornò dicendo: “suor Annunziata aspetta in parlatorio, ma soltanto una alla volta potete salire”.

Andro io!” rispose Rebecca.

Allora seguimi che ti accompagno.”

Scusi sorella, dov'è la cappella?” chiese Rosa, prima che andassero via.

Da dietro quella porta vi si accede” rispose la suora indicando un ingresso in fondo.

Grazie sorella, andrò un po' a pregare.”

Rebecca seguendo la religiosa giunse nel parlatorio. Lì trovo l'abbraccio materno di suor Annunziata, la giovane sentendo quell'affetto non riuscì a trattenere qualche lacrima. Sciolto l'abbraccio, la suora scherzosamente chiese: “A che devo che la mia signora venga a me?”

Cara Nunzia” l'essere sola con lei le rese impossibile chiamarla in altro modo,”sono reduce da una notte insonne.”

Perché cara figlia?”

Perché i nodi sono venuti al pettine!...” rispose Rebecca.

Che vuoi dire?...”

Voglio dire che i dubbi che quei nei mi hanno da sempre suscitato non erano forse del tutto infondati...”

Ancora questa storia, ti ho già detto mille volte che non sono niente di particolare... tantissime persone li hanno...”

Lo so, ma al paese c'è una donna che giura che sua figlia ne aveva tre identici...”

Vedi che ce ne sono tanti che li hanno, come ti ho sempre detto...” osservò la suora.

Allora mi sa che non ci siamo capiti!” replicò la giovane, che cominciava ad innervosirsi, “sempre quella donna dice che più di vent'anni fa, a causa della povertà e delle disgrazie che l'avevano colpita, è stata costretta ad abbandonare sua figlia...”

E allora? Perché mi racconti questi?...” chiese suor Annunziata.

Ah fai finta di niente!... Va bene fai come vuoi... Io continuo lo stesso. Sempre quella donna sostiene che sua figlia sia io... Tu che mi dici adesso?...”

La religiosa rimase immobile... senza parole... Aveva capito che tutto era finito, il segreto era stato svelato. Era sicura che prima o poi Rebecca l'avrebbe scoperto, ma non immaginava certo in quel modo.

E' vero!...” esclamò suor Annunziata, dopo il blocco iniziale.

Vero cosa?... vero cosa?... perché me lo dici solo adesso?...” replicò urlando ferocemente Rebecca.

L'avevo promesso a tuo padre...”

Ma cosa dici?... mi hai tradito!...” riprese la giovane, ormai in preda alla ferocia, “dimmi tutto subito! Adesso!...”

Va bene ti dirò tutto, però calmati... siediti che ti spiego.”

Rebecca, col volto in fiamme per l'agitazione, nonostante il suo animo bruciasse, si sedette ad ascoltare.

I tuoi genitori si amavano tanto ma il fatto che non arrivassero figli li faceva soffrire, specialmente a tuo padre. Questo pensiero li assillava, non gli dava pace; tanto da confidarlo al capo dei giardinieri che si occupavano della villa della Bagheria. Quest'uomo si commosse nel sentire la pena che pesava nell'animo del conte e promise a lui che avrebbe trovato un modo per aiutarlo... e lo trovo davvero: una mattina di luglio, prese tuo padre in disparte in giardino e gli disse che al suo paese, Belmonte Mezzagno, c'era una famiglia in gravissime difficoltà sia umane che economiche, tra cui il capofamiglia che era morto di colera poco prima che venisse alla luce il suo sesto figlio: una bellissima bambina che in quella famiglia difficilmente sarebbe riuscita a sfamarsi.

L'idea era quella di togliere la bimba a quella famiglia disgraziata per farla crescere come una Moncheda, diventando figlia del conte a tutti gli effetti... così si fece...”

Rebecca rimase di ghiaccio, anche se aveva già capito come potevano essere andate le cose, sentirsele raccontare le gelò il sangue. Una parte di lei aveva rifiutato quell'idea, ma adesso non c'era più scampo... le cose stavano in quel modo, non c'era via d'uscita.

Allora... è vero?...” riuscì a bisbigliare.

Sì, purtroppo le cose stanno proprio così” rispose la religiosa.

La giovane, nonostante la tempesta emozionale che stava vivendo non riusciva a proferire parola. La testa le martellava, si sentiva impazzire. Dopo qualche minuto, con un'immane sforzo, disse: “Perché non me l'hai detto prima?...”

Te l'ho detto già, l'avevo promesso a tuo padre. Quando sei arrivata a casa il conte mi ha subito ordinato che mai mi sarei dovuta permettere di dirtelo; se mi fossi permessa mi avrebbe cacciato... ti prego di perdonarmi...”

Detto questo, suor Annunziata si alzò per abbracciare Rebecca, ma dapprima la giovane col braccio l'allontanò per poi sciogliersi in pianto e abbracciare lei stessa la religiosa. Sciolto l'abbraccio, la giovane le chiese: “Adesso che faccio?”

Cara figlia, quella donna è tua madre...”

Con queste parole si lasciarono. Uscita dal parlatorio, Rebecca andò nella cappella e dopo aver recitato un Pater Noster uscì dal convento con la cognata. Una volta fuori, Rosa, vedendo la cognata stravolta le chiese: “Ma cos'hai? Sembri sconvolta...”

E lo sono davvero...”

Perché?”

Per rispondere, Rebecca cominciò a raccontare tutto, da quando da bambina guardando quei nei si chiedeva cosa potevano rappresentare, alla rivelazione della suocera con la conferma ricevuta da Nunzia. Il racconto terminò ai Chiavelli, ai piedi della salita verso Belmonte. Lì Rosa le chiese: “Che farai adesso?”

Non lo so ancora...”

Risalendo verso il paese, pensando e ripensando, Rebecca ebbe compassione per quella donna, lei aveva bisognom di una madre e probabilmente quella donna di una figlia. Decise che sarebbe corsa ad abbracciarla per non separarsi mai più da lei... 



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